La Legge sul lavoro

Per favore, smettiamo di chiamare servilmente all’americana Jobs Act (ma anche Job Act, o meglio Job’s Act) quella che è semplicemente, nella nostra bella lingua, “Legge sul lavoro”. Perché portare il cervello all’ammasso delle mode stupide? Qualche anglicismo può essere consentito, anzi è necessario quando manchi l’equivalente in italiano o sia ridicolo e inadatto: chiameremmo “topo” il mouse? Il Fascismo ci provò senza successo, quando tentò di abolire la parola bar sostituendola con “mescita”. Però possiamo dire benissimo “fine settimana” invece di week-end (è la stessissima cosa); possiamo dire “va bene,” o “d’accordo” invece di Occhei (tra parentesi, l’origine di questa espressione americana è piuttosto sinistra: durante la Guerra di Secessione, i rapporti dell’Esercito del Nord dopo uno scontro alle volte finivano con la dizione: Zero Killed, nessun morto, cioè, abbreviato, OK. Da lì l’uso poi diffusosi in tutto il mondo). E lasciamo che in tutto il mondo si dica “pizza” e “ciao” che sono intraducibili.

Ma venendo al merito, il Consiglio dei Ministri ha varato con una certa rapidità i primi decreti attuativi della Legge Delega sul Lavoro. Non sono un esperto e confesso che avevo stentato molto a capire qualcosa nel gergo specialistico della Legge. Ora cerco di capire con qualche maggior risultato il contenuto dei decreti e, a prima vista, non mi sembra né rivoluzionario, né da acclamare con entusiasmo, né da contestare con asprezza. Mi sembra un onesto tentativo di dare un po’ di fiato a un mercato da tempo anchilosato senza abbattere un sistema di garanzie per i lavoratori che fa parte ormai della nostra civiltà sociale e giuridica. Altrettanto infantili mi sembrano le violente resistenze dei sindacati e della sinistra radicale quanto le vesti stracciate a destra. Certo, ci sarebbe voluto più coraggio, ma chiedere al Governo di abolire completamente l’articolo 18 era chiedere, scientemente, demagogicamente, una cosa politicamente impraticabile, che avrebbe davvero spaccato il Paese e prodotto una situazione sociale insostenibile, a danno della stessa economia. Chi calcola il costo degli scioperi, chi calcola la perdita indotta dai lunghi conflitti sociali?

Se la politica è l’arte di rendere il necessario possibile, i decreti emanati il 24 di questo mese ne sono una dimostrazione eloquente. Frutto di uno, anzi di vari, compromessi, certamente, ma meglio di nulla, meglio dell’immobilismo predicato dalla signora Camusso o delle inutili barricate di Renato Brunetta (Berlusconi, del resto, nel suo intimo deve saperlo benissimo). La questione è ora di vedere se, sia pur in misura limitata, funzioneranno. L’anno che sta per cominciare dovrebbe, nelle previsioni, conoscere una modesta ripresa. È sperabile che essa si accompagni con un allargamento dell’occupazione. Sono, del resto, due facce della stessa medaglia. Senza crescita economica è vano sognare maggiore occupazione, senza maggiore occupazione la ripresa economica sarebbe asfittica o inesistente.

In una trasmissione della RAI ho sentito un economista rampante che sosteneva che tutto questo è inutile, che occorre una politica espansiva della spesa attraverso un vasto programma di opere pubbliche. È la vecchia ricetta keynesiana, e l’economista in questione citava l’esempio di Obama, che ha reagito alla crisi del 2008, appunto, con un colossale programma di investimenti, accettando un deficit annuale giunto al 12% (a Bruxelles rabbrividirebbero di orrore!). È stato, ovviamente, aiutato dalla Riserva Federale, che ha emesso dollari a piene mani, immettando nell’economia una enorme liquidità. Il risultato si è visto finalmente, con l’aumento del PIL del 5% registratosi nel 2014. Quello che non si dice, però, è che accanto a questo è aumentato sideralmente anche il debito pubblico degli Stati Uniti. E soprattutto non si dice che la ricetta keynesiana è possibile negli Stati Uniti, non perché non sono soggetti alle regole restrittive di Maastricht, né ad altro vincolo esterno, ma perché dispongono della più grande e flessibile economia del mondo e di una moneta che continua a essere la riserva numero uno e, grazie alle condizioni di stabilità politica e di sicurezza militare del Paese, continua ad essere accettata e anzi ricercata in tutto il mondo. Sono condizioni che non esistono in Europa e meno che mai in Italia e di questo sarebbe onesto rendersi conto e riconoscerlo e non inseguire quella che, in tempi di Reagan, fu chiamata “l’economia del Woodoo”. Non perché anche da noi un’adeguata politica d’investimenti non sia possibile e necessaria: il Premier Renzi ha ricordato che, in questi anni di riduzione dei consumi, gli italiani hanno risparmiato per oltre 400 miliardi di euro. È una somma che, se messa a produrre opere e non rendite finanziarie, sarebbe uno strumento potentissimo per uscire dalla crisi. E le recenti aperture europee consentono di giovarsi di una certa flessibilità nelle regole di bilancio (su questo colonne, Maurizio Donini ha analizzato con molta precisione il problema). Dunque il Governo italiano faccia la sua parte. Ma non chiedamogli cose impossibili. Sarebbe bello fare come gli Stati Uniti ma non siamo Gli Stati Uniti. Siamo l’Italia, con le sue potenzialità e i suoi limiti.

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