Papa Francesco e i quindici peccati

In una dura allocuzione prima di Natale, Papa Francesco ha indicato i quindici peccati principali che affliggono la Curia romana e il Clero in generale. È inutile rifarne qui la lista completa. Concentriamoci perciò sui due peccati intuitivamente più gravi, non solo agli occhi del Sommo Pontefice ma del comune sentire.

Il primo è la perversione che fa pensare a chi occupa una posizione di rilievo di essere unico, indispensabile e quindi di volersi eterno. Il Papa ha ricordato con duro umorismo il vecchio detto secondo cui “il cimitero è pieno di persone insostituibili”. È un male più diffuso di quello che si potrebbe immaginare. Quanti di noi, occupando a un dato momento una determinata posizione, non ci siamo illusi di essere unici e indispensabili? Potrebbe parere un peccato veniale, ma non lo è. È un difetto del carattere che ci porta a voler occupare sempre il centro della scena, a non accettare di farci da parte, com’è invece giusto e naturale nelle vicende umane. È un’altra faccia della superbia di chi si crede onnisciente, onnipotente e infallibile e per conseguenza è chiuso alle opinioni e ai valori altrui. Niente dialogo, niente ricerca di convergenze e consensi, solo l’arrogante convinzione di avere la giusta risposta a tutto, di essere colui che non può sbagliare e che, se i fatti dimostrano il contario, sono i fatti a sbagliare o, altrimenti, c’è una perversa cospirazione di nemici occulti che ci impedisce di riuscire.

Un secondo peccato consiste nel dimenticare che ogni posizione che veniamo ad occupare nella vita pubblica ha un senso e si giustifica solo con il servizio agli altri: di chi ci è più prossimo ma anche al di là, e più salgono di livello le nostre responsabilità, più ampio è il cerchio a cui dobbiamo dedicare la nostra opera. Questa è la qualità che caratterizza i veri pastori ma, direi, chiunque voglia porsi a leader. E invece il Papa ci ricorda con ragione che alle volte chi detiene una responsabilità dimentica il primo dovere, che è quello di “servire”, nel senso più alto e nobile della parola, e concepisce e usa il potere di cui dispone a fini personali, siano essi di arricchimento o di soddisfazione dei propri vizi o della propria vanità, o per puro gusto del potere fine a sé stesso (è un male più diffuso di quello che si immagina: c’è un detto siciliano che ricorda che “comandare è meglio che – diciamo – far l’amore”). Cattivi esempi ve ne sono nella nostra Chiesa, senza dubbio, a Roma e altrove e non occorre per questo riandare all’epoca dei Borgia e della simonia.  Esempi però, dobbiamo dirlo subito, limitati,  in una splendida Comunità che nella sua stragrande maggioranza è composta di pastori che compiono con dedizione e sacrificio, e spesso in condizioni materiali e morali difficili, la propria missione.

È perciò  difficile pensare che il monito del Papa, pur riformalmente rivolto al Clero, non andasse in realtà al di là di esso e non riguardasse anche altre sfere della vita pubblica, dirigendosi a tutti quelli, politici e  amministratori, che si credono investiti di un ruolo unico, insostituibile, cercano di mantenere il proprio potere indefinitamente e lo usano a fini personali. Ed è ragionevole pensare che l’alto ammonimento fosse inteso anche per tutti quanti noi, in una democrazia sana e repubblicana, abbiamo il diritto e la possibilità, se non altro al momento del voto, di punire gli arroganti e i corrotti e di affidarci a chi vuol fare solo onestamente e con modestia il proprio dovere. Perché tra i mali che il Papa ha fustigati ci sono anche quelli, spiacevole a Dio, dell’indifferenza e della compiacenza egoiste.

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