Cronache dai Palazzi
La “manina” che avrebbe spianato la strada al “salva-Berlusconi” irrita la minoranza dem e torna aria di tensione all’interno del Pd, un partito spaccato che in vista dell’elezione del nuovo Capo dello Stato rischia di implodere.
La preoccupazione per l’imminente successione a Giorgio Napolitano spinge comunque il premier-segretario Pd a chiedere al suo partito di fare fronte comune. Il decreto che fissa al 3% il tetto per i reati fiscali e che agevolerebbe l’ex Cavaliere non è l’unico motivo di dissenso. Nel mirino c’è anche l’Italicum, che secondo la famigerata “clausola” di salvaguardia dovrebbe entrare in vigore non prima di giugno-settembre 2016. Si discute ancora di premio di maggioranza alla lista o alla coalizione, di preferenze e di capilista bloccati.
Forza Italia continua a porre i propri veti: “Le preferenze per noi sono il male assoluto”, ribadisce Paolo Romani associandole al “voto di scambio”. Mentre Giovanni Toti avverte: “Non voteremo l’articolo che prevede il premio alla lista”. La sinistra Pd, a sua volta, ha già pronti sette otto emendamenti in dissenso. “Vogliamo ribaltare la proporzione tra capilista bloccati e preferenze – sottolinea il bersaniano Miguel Gotor – E, tra le altre cose, chiediamo di ridurre le pluricandidature da otto a tre, perché un malcostume non può diventare un elemento di virtù del sistema”. Malgrado tutto, martedì 13 gennaio si comincerà a votare.
“Per il governo è opportuno che la legge elettorale possa essere approntata tendendo conto dell’iter delle riforme costituzionali”, ha ribadito in Aula il ministro Boschi spiegando la necessità di colmare il vuoto normativo lasciato dalla sentenza della Consulta. L’impegno del governo è comunque quello di portare a termine la legislatura non anticipando la scadenza del 2018.
La minoranza dem teme che la cosiddetta “clausola” di salvaguardia possa essere surclassata con un decreto. In sostanza la minoranza del Pd e la Lega chiedevano di vincolare l’entrata in vigore dell’Italicum all’approvazione della riforma costituzionale che cancellerebbe il bicameralismo perfetto, un’accoppiata che Palazzo Chigi invece rifugge. Per Calderoli, inoltre, “Il Pd non è in grado di garantire l’unitarietà dei voti dei suoi componenti in commissione”. Un partito spaccato anche nelle commissioni quindi.
Il premier Renzi e i suoi seguaci sono comunque convinti che alla fine il partito reggerà superando la prova del voto dell’Italicum 2.0 e soprattutto esprimendo un presidente della Repubblica condiviso. Non mancano però le provocazioni, tantoché per l’elezione del Capo dello Stato Bersani chiede di “ripartire da dove ci si è fermati” due anni fa, ossia da Romano Prodi, con l’obiettivo di “sanare la ferita dei 101 franchi tiratori che sanguina ancora”. Il “pasticcio” fiscale, infine, avrebbe alimentato dei “dubbi sul Patto del Nazareno e ora Renzi deve riferire in Parlamento”, ammonisce Bersani, che aggiunge: “Non solo perché dovremo votare il capo dello Stato, ma perché possa procedere l’iter delle riforme”.
Circola quindi un’aria di sfida, e l’atmosfera è tutt’altro che distesa. In sostanza i bersaniani e la minoranza dem si stanno preparando a bocciare un candidato al Colle che sia espressione del Patto del Nazareno, ma l’intesa stretta tra Renzi e Berlusconi non è digerita nemmeno dall’ala di Fitto all’interno di FI, e agli insoddisfatti si aggiungono Ncd Udc e Scelta civica e, ovviamente, M5S e Sel. “Bene l’ipotesi avanzata da Forza Italia e Ncd – ha dichiarato il Vicepresidente dei Popolari per l’Italia Potito Salatto – di un candidato alla presidenza della Repubblica aderente al Ppe. I Popolari per l’Italia concordano con questa linea”. Salatto sottolinea che “cedere alle pretese della sinistra di avere il presidente del Consiglio, la presidente della Camera e il presidente del Senato, con anche il Colle in aggiunta, sarebbe un gravissimo danno per la democrazia del nostro Paese”.
Lo scivolone di Renzi sullo “sconto” fiscale è stata la miccia che ha appiccato il fuoco, che rischia di trasformarsi in un vero e proprio incendio mettendo a rischio la riforma costituzionale, per la quale è iniziata a Montecitorio la votazione degli emendamenti, e il voto per la riforma della legge elettorale che dovrebbe andare in onda a Palazzo Madama dal prossimo 15 gennaio. Renzi spera di far approvare i due testi prima che i grandi elettori (1.009) siano impegnati nella votazione del nuovo presidente della Repubblica, anche se proprio a causa dell’Italicum Giorgio Napolitano potrebbe decidere di rimandare di una settimana le sue dimissioni. Martedì 13 gennaio saranno depositati tutti gli emendamenti e solo allora si potrà capire qual è lo stato dell’arte: la tenuta della maggioranza, di tutto il Pd e molto probabilmente anche di FI. Per ora il presidente dei senatori dem, Luigi Zanda, tenta di convincere la minoranza del suo partito dell’impossibilità di procedere alla modifica delle preferenze, con l’ipotesi avanzata del listino.
In definitiva riforme ed elezione del nuovo capo dello Stato appaiono sempre più intrecciate e il rinvio del decreto fiscale – ribattezzato “salva Berlusconi” – al Cdm del 20 febbraio, non ha fatto altro che acuire la tensione tra i gruppi la cui gestione non sarà affatto semplice nel corso della scelta del nuovo presidente. Renzi è convinto che il polverone mediatico sollevato dal “salva Berlusconi” si abbasserà nel giro di pochi giorni e che sul Quirinale nel suo Pd prevarrà il “senso di responsabilità istituzionale”, bollato però dai suoi avversari come “conformismo opportunista”. Avversari che potrebbero giocargli un pericoloso ‘scacco matto’ o comunque complicare i giochi tattici del premier-segretario.
“Aspetto che Renzi mi risponda ‘Prodi no’. Gli dirò che l’avevo capito due anni”, afferma l’ex leader del Pd, Pier Luigi Bersani, che sembra aver puntato il premier aspettando di poterlo additare come il regista della famigerata “operazione dei 101”, episodio rivelatosi il principio della fine per il capo della “ditta” nel 2013. In questo frangente i ruoli si sono rovesciati ed ora dovrà essere Renzi a fronteggiare lo stesso Parlamento e un partito – il Pd – dove anche i fedelissimi renziani riconoscono la difficoltà di gestire i diversi gruppi. Bersani invita Renzi a non stravolgere l’idea di società incarnata dal Partito democratico: “Per i lavoratori facciamo all’americana, per gli evasori all’italiana? Ci sono dei punti limite”. Il meccanismo dei nominati della riforma del sistema di voto invece “non sta in piedi” e il nuovo inquilino del Quirinale non potrà essere espressione del Patto del Nazareno. Una sintesi amara che lascia intravedere giorni duri per la politica italiana in balìa delle riforme (ancora in alto mare) e presto alle prese con l’elezione di un nuovo presidente della Repubblica.
Nel frattempo la norma anticorruzione riparte dal ddl Grasso. Il Guardasigilli Andrea Orlando ha presentato in commissione giustizia a Palazzo Madama una serie di emendamenti al testo presentato dal presidente del Senato. Venticinque articoli che fanno chiarezza sul testo approvato in Consiglio dei ministri: inasprimenti delle pene per i reati di corruzione (da 6 a 10 anni) e il patteggiamento subordinato al risarcimento del danno. Modificate inoltre le norme sul falso in bilancio e inasprite le pene per i reati di mafia. “Ritengo che nei primi mesi del 2015 la norma sarà legge”, ha dichiarato il ministro della giustizia.
Si chiama invece “Industrial compact” l’ultimo prodotto Renzi-Padoan, di concerto con il ministero dello Sviluppo economico che si sta occupando dell’elaborazione del testo. Si tratta di un provvedimento pensato per favorire lo sviluppo delle piccole e medie imprese (Pmi), che dovrebbe essere varato dal Consiglio dei ministri entro gennaio e in cui è prevista anche una norma per favorire il rientro dei “cervelli”. I pilastri dell’“Industrial compact sono l’agevolazione del credito alle Pmi – si introducono intermediari diversi da quelli bancari – e un’accelerata alla loro innovazione (ricerca e sviluppo, brevetti) e aggregazione (incentivi fiscali). Un decreto che dovrebbe essere “a costo zero”.
Per il premier gennaio è un “bivio”, in cui si capirà se la legislatura “esiste o resiste”. Se non si fanno le riforme crolla l’“architrave”, la legislatura fallisce e con essa anche il Pd. Renzi chiede quindi ai suoi di ‘allacciare le cinture’ e procedere alla “prova dei fatti”. Parole sibilline dietro le quali la minoranza dem (e non solo) continua ad intravedere la minaccia del voto anticipato, o comunque l’impossibilità, alla fine, di arrivare al 2018.