Nove anni da Presidente

Nessun Presidente della Repubblica, da Enrico De Nicola a Carlo Azeglio Ciampi, ha traversato anni tanto difficili e complessi quanto Giorgio Napolitano. Anni in cui il normale funzionamento delle istituzioni si è più volte bloccato e in cui alla crisi della politica hanno fatto riscontro una profonda e diffusa crisi morale e una grave crisi economica e finanziaria.

Ricordiamone i momenti principali. Nel 2008 il Governo Prodi, pugnalato dai suoi stessi alleati, cade, salta la maggioranza che nel 2006 aveva eletto Napolitano al Quirinale. Si impongono nuove elezioni, che il Presidente correttamente convoca, a soli due anni dalle precedenti. Vince, largamente, la coalizione guidata da Silvio Berlusconi, che gode di ampia maggioranza nelle due Camere, ma gli anni che seguono sono agitati. Scoppia la crisi economica mondiale, la peggiore dal lontano 1929, di cui il Governo italiano non ha alcuna responsabilità. È nata negli Stati Uniti, per gli eccessi della speculazione finanziaria favorita dalla dissennata “deregulation” imposta dalla destra americana, ma presto colpisce in modo devastante l’Europa e l’Italia. Il Governo reagisce come può, cercando di evitare conseguenze sociali insostenibili, e per questo è costretto, come altri governi europei, a sforare i limiti del deficit imposti dal Trattato di Maastricht. Non poteva far altro, ma inevitabilmente la situazione si ripercuote sulla credibilità fiscale e finanziaria del Paese. Non stiamo peggio di altri, Spagna, Portogallo, Irlanda, Grecia arrivano all’orlo del collasso, necessitando un salvataggio straordinario dell’Europa e del FMI.

Ma nell’autunno del 2011 i mercati ci voltano le spalle, lo spread con la Germania sale a oltre 540. Nel frattempo, la secessione finiana ha fortemente inebolito il Governo che, a un certo punto, si trova senza maggioranza in Parlamento. A questo punto, Berlusconi è costretto alle dimissioni e Giorgio Napolitano deve prendere il timone, nel pieno rispetto delle sue prerogative, ma anche dei suoi doveri, costituzionali,  come aveva già fatto Scalfaro a tre riprese negli anni Novanta. Chiama a Palazzo Chigi Mario Monti, perché in quel momento l’essenziale è evitare il peggio. Le tre principali forze politiche lo sanno tanto bene che collaborano per un anno circa con il Governo e questo permette a Monti di fermare l’Italia sull’orlo del baratro e ridarci credibilità in Europa e nei mercati.

La tregua dura appena un anno, come era in fondo prevedibile. Berlusconi si sgancia dalla maggioranza trasversale e manda Monti al macero, compiendo un errore politico di cui l’area moderata sconta ancora le conseguenze. Probabilmente a lui,e non solo a lui, sfugge che il pericolo vero viene ora dall’antipolitica che trova in Grillo il suo più aggressivo e vociante portabandiera. Le elezioni del febbraio 2013 danno il risultato peggiore che si potesse immaginare. La coalizione di sinistra vince per un soffio, grazie alla Legge Calderoli ha la maggioranza alla Camera ma non al Senato. Il secondo partito non è il PDL (la  cui coalizione è però la seconda) ma il Movimento 5 Stelle, che fa subito la voce grossa, rifiutandosi ad ogni intesa con altri, ma reclamando assurdamente la guida del governo. Bersani insegue per varie settimane l’indegna illusione di un accordo con Grillo e a un certo punto propone una strategia disperata: formare il Governo e presentarsi alle Camere, con la speranza di strappare qualche voto di scontenti grillini o, se no, di andare a nuove elezioni avendo in mano l’esecutivo. Napolitano lo blocca e fa invece da levatore all’unica soluzione possibile, l’unica civile e democratica, sul modello di quanto accade in paesi come la Germania: la “grande coalizione”, o “larghe intese”. È senz’altro lui il padre e garante del Governo Letta.

La tragicommedia dell’elezione del Capo dello Stato mostra a quale punto di sfaldamento sia arrivato il sistema politico. Due candidati, ambedue del PD, il primo concordato con Berlusconi, vengono bruciati da più di cento franchi-tiratori, in grande maggioranza democratici. Bersani, Berlusconi, Casini, corrono al Quirinale a supplicare Napolitano di accettare la rielezione. Lui, che aveva reso chiarissimo che non la desiderava, l’accetta per spirito di servizio, facendo capire che non avrebbe compiuto l’intero settennato. Ma in autunno l’apparente sintonia che aveva portato alla rielezione e sosteneva Letta viene meno. La fa saltare, ancora una volta, Berlusconi, nel frattempo condannato in via definitiva per evasione tributaria e privato del suo seggio al Senato: il suo dispetto è comprensibile ma non per questo è meno dannoso per l’Italia. Il Governo bene o male si regge in piedi, grazie alla secessione di NCD, ma nella primavera successiva, vinte le elezioni primarie nel PD, Matteo Renzi liquida Enrico Letta e sale a Palazzo Chigi. È un colpo di mano, ma Napolitano non può che prendere atto della volontà del principale partito della coalizione. Ogni altra scelta sarebbe stava lesiva della Costituzione e politicamente insostenibile.

Basta questo semplice ripasso degli eventi per rendersi conto di quanto centrale e positivo per il Paese sia stato il ruolo svolto da Giorgio Napolitano, il quale del resto, per tutti gli anni del suo mandato, ha costituito un punto di riferimento morale per le istituzioni e per una maggioranza del Paese. Dopo Pertini, nessun Presidente ha goduto di altrettanta popolarità  e dell’affetto della gente comune. I suoi messaggi di fine d’anno sono stati ascoltati sempre da più di dieci milioni di persone, l’ultimo del 31 dicembre 2014 da oltre tredici milioni. E centinaia di migliaia sono stati i messaggi di consenso e affetto giunti anno dopo anno al Quirinale.

Ora se n’è andato e la Repubblica è, speriamo momentaneamente, orfana. Se n’è andato circondato dal rispetto generale, non scalfito certo dal gracidare di certe ignobili ranocchie. Se n’è andato con grande dignità, dando ancora una volta una lezione di sobrietà e di stile. Conosco abbastanza la vita pubblica, vi ho in qualche misura partecipato e so che, in un mondo di ambiziosi che farebbero di tutto per afferrarsi a un briciolo di potere, non è usuale e non deve essere facile, a nessuna età, rinunciare da un giorno all’altro agli onori, all’importanza, all’essere al centro delle cose. Lo stesso Pertini, ultranovantenne, sarebbe stato felice di essere rieletto e si offese quando ciò non accadde. Benedetto XVI  ha indicato la strada, seguita poi dai Sovrani di Olanda, Belgio e Spagna. Ma Giorgio Napolitano l’avrebbe percorsa anche da solo, perché così gli dettava il senso dello Stato e il rispetto delle istituzioni.

Per una saggia disposizione della nostra Costituzione, il Presidente cessante non esce del tutto dalla scena politica, ma va ad occupare un seggio di Senatore a vita. Siamo sicuri che Giorgio Napolitano eserciterà anche questa funzione con la stessa saggezza a cui ha improntato il suo novennato al Quirinale.

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