Cuba e USA: fine del castrismo?
Si sono aperte ufficialmente le conversazioni tra Stati Uniti e Cuba per il ristabilimento delle relazioni diplomatiche e, allo stesso tempo, il Presidente Obama ha chiesto la fine dell’embargo commerciale contro l’Isola. Dopo mezzo secolo di ostilità reciproca, vi è dunque la speranza di una normalizzazione che dovrebbe significare anche un certo riavvicinamento. Com’è accolta la notizia in America Latina? Con soddisfazione, in alcuni casi finta. Quei governi che, sull’onda di un rinnovato populismo anti-imperialista, avevano fatto del Grande Fratello americano il capro espiatorio di tutti i loro problemi e l’origine di tutti i mali, in superficie fingono di congratularsi con il Presidente Obama per la sua coraggiosa decisione, ma in realtà masticano amaro. Come continuare a demonizzare un Paese che tende la mano al più antico, e tuttora massimo, rappresentante del populismo nel Continente e, soprattutto, come situarsi nella “lotta” anti-imperialista quando il portabandiera di essa accetta la mano tesa di Washington, mostrando di aver bisogno di rapporti normali con la Superpotenza americana, di necessitare il suo aiuto per un’economia sempre più disastrata?
Cuba, relativamente insignificante in sé, è infatti dalla fine degli anni Cinquanta un simbolo poderoso per tutti quelli che cercano in un’impossibile lotta all’Occidente capitalista una scorciatoia per il riscatto da mali antichi. Fidel Castro è stato per mezzo secolo – e in parte continua a essere – un referente di quella sinistra velleitaria che in teoria dovrebbe essere l’antesignana dei diritti dell’uomo e ignora, o sottovaluta, la loro patente, massiccia, continuata violazione da parte del castrismo. Ho visto per decenni, e non ho mai compreso, lo strano fascino che il barbuto “comandante” esercita anche su gente normalmente ragionevole. Pensiamo a tanti della sinistra italiana che si sono recati in pellegrinaggio alla Mecca cubana, ma anche a intellettuali libertari, come Garcia Marquez. Persino negli ultimi anni, con una Cuba all’orlo della fame e con migliaia di oppositori in carcere, la visita al soglio castrista, la fotografia col vecchio leader all’estremo delle sue forze, resta un rito seguito anche da leader latinoamericani di peso: non solo, a suo tempo, Chavez e ora il pittoresco Maduro (che parla con l’uccellino inviato dal defunto comandante bolivariano). Ma non solo loro.
Può darsi che Obama, con la sua decisione a sopresa, abbia contribuito a tagliare l’erba sotto i piedi a questo insensato incensamento di una rivoluzione finita nella miseria e nell’oppressione. È difficile pensare che si sia trattato di un gesto non sufficientemente riflettuto e pesato. È stato preceduto da un negoziato di un anno, in cui sono intervenuti il Papa e il Governo canadese. Non credo che il Presidente si sia risolto a un passo discutibile e discusso in America senza qualche assicurazione per la futura evoluzione dell’Isola, al di là della modesta liberalizzazione del suo commercio. In altre parole: il riavvicinamento agli Stati Uniti preannuncia in qualche modo una fine, anche graduale, del castrismo?
Questo è il punto su cui si concentrano le speranze di quei cubani in esilio che, pur combattendo con tutte le loro forze il regime, favoriscono un riavvicinamento degli Stati Uniti al loro Paese (altri continuano invece ad appoggiare una politica belligerante del tipo di quella che portò al disastro della Baia dei Porci, e trova ancora vasti consensi nella destra repubblicana). Una “lettera aperta al Presidente Obama” di un resistente cubano, Oswaldo Payà (figlio di un politico assassinato un anno fa dalla polizia del regime) riassume bene i loro sentimenti. Mette in guardia Obama da un allentamento troppo rapido e unilaterale delle restrizioni contro Cuba (si chiede ad esempio se sia opportuno cancellare il Paese dalla lista di quelli che appoggiano il terrorismo, visto che poco più di un anno fa agenti cubani sono stati pescati in flagrante mentre contrabbandavano armi nord-coreane per il Canale di Panama). Il ragionamento è questo: è vero che cinquant’anni di ostilità non hanno portato alcun risultato (come ha riconosciuto Obama nel suo discorso), ma neppure la linea seguita da tutti quei Paesi dell’Occidente (dalla Spagna all’Italia, dalla Francia al Canada) che hanno mantenuto in questo mezzo secolo rapporti normali con l’Avana è servita a nulla. Il regime è rimasto sempre lo stesso, pervicacemente chiuso a ogni aspirazione di vera democrazia. L’idea che il commercio da solo serva a cambiare poco a poco i regimi polizieschi è generosa ma illusoria (la Cina ne è l’esempio più chiaro). Quindi è più che giusto chiedere ora agli Stati Uniti prudenza e lungimiranza. Il virtuale riconoscimento del regime deve avere contropartite certe.
Va bene dunque normalizzare i rapporti. Va bene aprire un’Ambasciata all’Avana. Va bene ammorbidire sanzioni che impoveriscono la popolazione ma non scalfiscono il regime. Ma gli Stati Uniti, e l’insieme dei Paesi occidentali, devono fare proprie le rivendicazioni, non solo degli esuli cubani, ma di tutto un popolo a cui è impedito esprimersi liberamente. La più importante e decisiva riguarda elezioni libere e democratiche, con un controllo esterno. Solo così Cuba avrà un futuro degno, che la riporti nel seno della grande comunità dei popoli che godono del bene più prezioso: la libertà.