Che succede in Libia?

Ho della Libia un ricordo lontano ma preciso. Era l’epoca dell’embargo della Nazioni Unite per l’affare Lockerbie  ed erano proibiti i contatti con il governo libico a livello politico e i voli da e per Tripoli. Però l’AGIP aveva la necessità di rinegoziare il prezzo del petrolio, contrattualmente troppo alto rispetto al prezzo di mercato. La differenza faceva perdere alla nostra compagnia più di un miliardo di dollari l’anno. Giulio Andreotti, allora Presidente del Consiglio, incaricò me, allora Direttore Generale degli Affari Economici della Farnesina, di andare a Tripoli in missione segreta per aprire la strada ad una rinegoziazione. Mi consigliò di farmi accompagnare da mia moglie perchè il viaggio avesse un apparenza “turistica”. Aver scelto me non dipendeva solo dal mio incarico, ma dalla conoscenza che aveva Andreotti dei miei rapporti con il Ministro degli Esteri libico, che era stato mio collega e vicino di casa a New York  quando ambedue rappresentavamo i nostri Paesi all’ONU, e con cui si era sviluppata una certa amicizia (Andreotti era attentissimo a queste cose).

L’AGIP ci mise a disposizione un suo aereo e un lunedì mattina atterrammo a Tripoli. La prima impressione fu di una cittadina di provincia del sud d’Italia: bianca, con case basse, nell’insieme ordinata e pulita. La gente che vedevamo pareva serena e non vi erano segni evidenti di povertà. Il suk, dove condussero mia moglie, aveva pochi articoli, ma non mancava l’essenziale. Fummo invitati a varie cene a base di coscous in ristoranti di un certo livello e, una mattina, condotti a visitare Leptis Magna, che è una meraviglia di architettura romana assai poco visitata e conosciuta. Nel frattempo le conversazioni con i libici andavano avanti in un clima di comprensione e persino di simpatia filo-italiana da parte dei padroni di casa. Vidi i Ministri degli Esteri e del Petrolio, tutti furono aperti e cortesi, ma era chiaro che la decisione poteva prenderla solo Gheddafi, il quale si trovava sotto una tenda in qualche parte della Cirenaica. Passarono quattro o cinque giorni poi, il sabato mattina, il colonnello finalmente apparve, sbloccò la situazione e noi potemmo tornare a Roma con un buon risultato in tasca. Racconto tutto questo per dire che l’impressione che mi fecero Tripoli, la Libia e il suo governo non fu negativa, soprattutto se paragonata a quanto mi era toccato vedere di persona in altri paesi africani e arabi. Sapevo bene, dagli amici nei nostri Servizi, che dietro quella tranquillità apparente si celava un regime di polizia che reprimeva il dissenso. Ma mi parve che la gente comune vivesse nell’insieme in modo soddisfacente e che il denaro del petrolio, a parte quello che Gheddafi dissipava in impossibili avventure esterne, venisse abbastanza regolarmente distribuito.

Vennero altri tempi: successivi governi italiani, approfittando della virata che aveva portato Gheddafi a distanziarsi dall’appoggio scoperto al terrorismo, applicarono in ritardo la politica di Andreotti, cercando di superare il vecchio contenzioso e di stabilire con l’ex-colonia rapporti di amicizia. Lo fece Prodi e poi soprattutto Berlusconi (non senza episodi grotteschi come il famosissimo bacio di mano). Venne poi la “primavera araba” (che sollevò tanti prematuri entusiasmi). Il Presidente francese Sarkozy guidò una violenta crociata contro Gheddafi, obbligando l’Inghilterra dapprima, poi gli Stati Uniti, noi stessi e l’intera NATO, a seguirlo (solo la Germania ebbe il buon senso di tirarsi fuori). È inutile qui speculare sulle ragioni che lo muovevano. In Francia sono stati scritti libri sull’argomento, sostenendo un passato finanziamento gheddafiano alla campagna elettorale sarkoziana, di cui il Presidente voleva cancellare le tracce. A quel tempo, scrissi che a mio avviso molto dipendeva dal fatto che la Francia era rimasta quasi del tutto fuori dei grandi affari in Libia e, assieme agli inglesi, puntava a metter da parte noi che con Tripoli avevamo invece intessuto rapporti ampi e proficui. Il fatto è che Gheddafi e il suo regime furono distrutti, i servizi con i quali controllava il Paese dispersi (lo stesso errore era stato fatto dagli Stati Uniti in Irak)  e al loro posto si è installato non un regime più o meno democratico, ma il caos. I drammatici eventi recenti hanno confermato che, non più solo nella lontana Cirenaica, ma nel cuore di Tripoli, il terrorismo islamico ispirato dall’IS è attivo e minaccioso e non è lontano dall’imporre sulla “quarta sponda” un regime del più violento fanatismo. Questa situazione è responsabilità di tutto l’Occidente, non solo dell’Italia, ma constatarlo è di scarsa consolazione. Quelli che in Europa ne porteranno le più pesanti conseguenze saremo noi, sia per l’importanza delle forniture di petrolio libico e della nostra presenza economica, che dà lavoro a tante nostre imprese, sia per la prossimità geografica che ci espone a tutti i danni del terrorismo e di una immigrazione incontrollata.

Credo sia giusto chiedere al nostro Governo: cosa intendiamo fare per far fronte a questa minaccia, a parte i balbettii diplomatici che affidano un’ impossibile soluzione alle conversazioni di Ginevra, come se fosse possibile raggiungere accordi seri e durevoli con i terroristi decisi a farci fuori? Non è il tempo che la NATO adotti una strategia di contenimento a sostegno delle Autorità legittime di Tripoli? Non è tempo che la grande potenza regionale “laica”, l’Egitto, entri direttamente nel gioco e metta ordine in un caos che, prima o poi, minaccia di contagiarla?

Tutti presi come siamo dai giochi quirinalizi, dal decisionismo renziamo e dai capricci berlusconiani, e magari dai salti mortali greci, sembriamo non accorgerci che, mentre a Bisanzio si discute il sesso degli angeli, il nemico è, letteralmente, alle porte.

©Futuro Europa®

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