Meno carne e più verdure per ridurre gas serra
Pochi sanno che l’allevamento produce a livello mondiale più emissioni di gas serra dell’intero settore trasporti: il 18 per cento, contro il 13.5 per cento, dicono gli studi della FAO. Responsabile è la trasformazione dei nutrienti vegetali in proteine animali attraverso la digestione e l’alimentazione di bovini, suini, ovini, pollame e pesci, un ‘laboratorio’ cresciuto in modo esponenziale, con 56 miliardi di animali, pesci esclusi, macellati ogni anno a scopo alimentare. Un dato impressionante, frutto della convergenza di due fattori: il raddoppio della popolazione mondiale in poco più di mezzo secolo e l’aumento del consumo di carne per ciascuno degli attuali 6 miliardi e oltre di abitanti della Terra. Un dato non valido in assoluto, quest’ultimo, visto che si tratta di una media ed in alcuni continenti la fame persiste e dilaga. Il consumo di carne è considerato uno status-symbol nei Paesi emergenti come la Cina, passata da 13 kg. pro capite del 1980 ai 53 del 2004, con una tendenza che prevede nel 2013 il raggiungimento per ogni cinese del consumo procapite di carne tipico dei paesi sviluppati, pari ad oltre 80 kg. l’anno; da moltiplicare per una popolazione di oltre sette volte maggiore di tutta quella dei ‘Paesi sviluppati’.
Come se non bastasse, i dati FAO potrebbero essere fortemente ottimistici: secondo una loro analisi critica effettuata dal Worldwatch Istitute nel 2009, le emissioni di gas serra dovute all’allevamento raggiungerebbero già oggi il 51 per cento del totale. L’impatto ambientale dell’allevamento a scopo alimentare è fortissimo non solo sull’atmosfera, ma anche sul consumo di suolo e su quello dell’acqua: per abbeveramento e pulizia degli animali, e per alimentazione e raffreddamento degli impianti, la produzione di un kg. di carne di manzo comporta ad esempio il consumo di 15.400 litri di acqua, contro i 3.300 necessari per produrre un kg. di uova ed i 200 litri per un kg. di pomodori.
Numeri impressionanti, che nel Livestock’s Long Shadow, pubblicato nel 2006, la FAO commenta dicendo che “il settore dell’allevamento emerge come una delle prime due o tre più significative cause dei più gravi problemi ambientali. L’impatto è così rilevante che deve essere affrontato con urgenza”. Come? Primo e fondamentale obiettivo, ridurre il consumo di carne a livello mondiale: un risultato che può essere raggiunto agendo sui costumi, come quello che vede appunto l’acquisto di carne come status symbol, oppure quello che considera il consumo di carne come irrinunciabile, in quantità ben superiore a quelle che la scienza indica come indispensabile. Da Jeremy Rifkin a Paul McCartney, per non parlare della comunità scientifica internazionale, la riduzione o l’abbattimento di consumo di carne nell’alimentazione a favore di una dieta prevalentemente o totalmente vegetariana viene da decenni documentato e promosso come salutare, oltre che etico per il contributo che ciascuno può dare alla salute dell’ambiente e per il futuro del Pianeta.
Secondo: fra le specie animali, allevare quelle che producono meno gas serra. E qui va considerato che agli estremi delle statistiche sui consumi delle risorse aria, acqua e suolo si collocano da una parte la carne di manzo, appunto, e dall’altra il pesce allevato. Non tutte le specie di pesce allevato, però, dato che ad esempio l’ingrasso del tonno rosso produce un grave impatto di tipo diverso, quello sulle altre specie pescate per produrre il mangime necessario: 20-25 kg. di pesce per un solo kg di aumento di peso del tonno rosso, contro i 2-5 kg. normalmente necessari per tutte le altre specie. Il consumo di pesce procurato a certe condizioni è uno strumento che la FAO considera fondamentale per l’alimentazione umana e al quale ha dedicato la Global Inland Fischeries Conference appena conclusa a Roma. L’evento, al quale hanno preso parte i principali ricercatori nel campo della pesca e la gestione delle acque, insieme a gruppi di popolazioni indigene e a numerose organizzazioni non governative, ha evidenziato che sessanta milioni di persone nel mondo basano oggi la loro sopravvivenza sulla pesca nelle acque interne, ben diversa da quella industriale in mare.
La Conferenza è stata organizzata congiuntamente dalla FAO e Michigan State University negli Stati Uniti. “La pesca nelle acque interne costituisce una fonte preziosa, ma spesso trascurato della nutrizione e di occupazione in tutto il mondo”, ha detto M. Mathiesen Árni, FAO Vice Direttore Generale del Dipartimento della pesca e dell’acquacoltura. “Ma fino ad oggi, lo sforzo internazionale per integrare efficacemente pesca nelle acque interne nel programma di sviluppo più ampio è caduto a corto di ciò che è necessario”, anche perché a livello globale, il 70 per cento delle riserve di acqua dolce disponibili è utilizzato per l’agricoltura. E qui va ricordato come la zootecnia assorba quantità di acqua esponenziali rispetto alle colture vegetali. “La nutrizione umana, la sostenibilità ambientale e la comunità di prosperità sono strettamente legate alla salute della pesca d’acqua dolce in tutto il mondo”, ha dichiarato il presidente del Michigan State University Lou Anna K. Simon.
Viene a questo punto da osservare che lo sviluppo dell’allevamento delle acque interne costituisce una fonte di proteine animali di basso impatto: l’allevamento di specie non carnivore, come quello delle carpe in Cina ed in estremo Oriente, è molto più sostenibile di quello di specie carnivore come il tonno, il salmone, l’orata o la spigola, che richiede la produzione di mangime derivato dalla pesca in mare aperto. Dunque le acque interne sono una risorsa di grande importanza, da tutelare a livello mondiale come ambiente adatto alla pesca ma anche ad allevamenti di tipo sostenibile: come quello della carpa in Cina, dai noi praticato un tempo nelle risaie del Nord Italia e, prima ancora, dai Romani.