Fumagalli: Jobs Act e Quantitative Easing, terapie inefficaci?

Classe 1959 e laureato in Discipline Economiche e Sociali all’Università Bocconi di Milano con una tesi sui processi inflazionistici avendo tra i relatori il prof. Mario Monti, Andrea Fumagalli è uno dei più stimati ed eminenti economisti italiani. Membro del Research Committee dell’ECSB (European Council of Small Business), professore associato di Economia Politica presso la Facoltà di Economia dell’Università di Pavia e con incarichi in numerose istituzioni e riviste, a lui abbiamo chiesto un parere sul tanto discusso Reddito di Cittadinanza e sul recente Quantitative Easing della BCE.

Riguardo il Reddito di Cittadinanza di cui fu relatore a FARETE, mi pare si possa dire che più che di cittadinanza Lei intenda piuttosto un Reddito di Esistenza, cioè una base salariale minima uguale per tutti a prescindere dall’essere o meno occupati.

Esatto, è l’argomentazione che io porto avanti da alcuni anni. In primo luogo preferisco utilizzare la dizione “Reddito di base” o “reddito di esistenza” perché il termine “reddito di cittadinanza” può essere facilmente equivocato a seconda dell’idea che si ha di “cittadinanza”. La giustificazione di un reddito di base (basic income) sta nella constatazione che nell’attuale paradigma di accumulazione capitalista, molte nostre attività di vita (cura, formazione, svago, consumo, attività artistiche-culturali, sportive, ecc.) sono in modo diverso parte integrante di un processo di valorizzazione, di cui solo una piccola parte – quella certificata da un rapporto di lavoro che prevede una remunerazione – viene riconosciuta e certificata. Da questo punto di vista, il reddito di base non è strumento di assistenza ma piuttosto e forma di remunerazione di una attività produttiva di valore gratuita (e infatti purtroppo il lavoro non pagato si sta pericolosamente estendendo, vedi il caso Expo Milano 2015). Il reddito di base è dunque “reddito primario”, elemento che interviene in modo diretto nella distribuzione della ricchezza tra salari, profitti e rendite, Parliamo di “distribuzione” non redistribuzione, e ciò significa che il reddito di base è una porzione della ricchezza sociale, e deve essere finanziato dalla fiscalità generale recuperando quote di profitto e rendita.

Se il nesso produzione-occupazione non è più valido in quanto come ha descritto l’evoluzione informatica incide sul “come produrre” e non sul “prodotto”, il Jobs act che effetti potrà avere?

Difficilmente il Jobs Act potrà favorire la crescita di lavoro. Potrà forse aumentare l numero degli occupati grazie all’effetto sostituzione “lavoro precario/lavoro stabile”  ma con conseguenze disastrose per la crescita economica e la qualità della produzione, perché in Italia è proprio l’eccesso di precarizzazione che riduce la produttività e la competitività delle imprese italiane. Riguardo l’art.18, esso era stato già fortemente depotenziato e smantellato dalla riforma Fornero e comunque riguarda una parte minore (seppur consistente) della forza lavoro, visto che riguarda solo i dipendenti stabili in imprese con più di 15addetti i. Il jobs act rientra in quella politica economica che io chiamo “dei due tempi”, cioè prima si interviene cercando di diminuire il costo del lavoro con la precarietà e la riduzione dei diritti, ritenendo (in modo del tutto pretestuoso e ideologico)che ciò possa essere sufficiente a permettere alle imprese di tornare ad investire all’interno di un mercato globalizzato. Se tutto questo si verificasse comincerebbe, poi,  il secondo tempo in cui le imprese crescendo creano occupazione producono reddito e magari qualche briciola potrà finanziare un po’ più di “sicurezza sociale”. Negli ultimi 30 anni abbiamo sempre visto solo il primo tempo, e alla fine il secondo non è mai arrivato ne mai arriverà. E’ il discorso della “flex security”, flessibilità del lavoro prima e sicurezza sociale poi. Io credo che oggi prima di tutto dobbiamo constatare che queste  politiche non hanno funzionato: non solo, hanno anzi peggiorato la situazione, impedendo  la possibilità di sfruttare al meglio  le nuove forme di economia di scala che stanno alla base della crescita  odierna della produttività: le economie di apprendimento e di rete. Esattamente com è successo e sta succedendo con le politiche di austerity che lungi dal ridurre il debito pubblico lo hanno anzi fatto aumentare.

Se la crescita della produzione è quindi slegata dalla crescita dell’occupazione, quali interventi sarebbero auspicabili? Rendere più competiti i prodotti?

Direi che si è confusa la causa con l’effetto. Io rovescerei i termini, Invece di parlare sempre delle modalità della produzione, parlerei delle condizioni di lavoro: garantire sicurezza e stabilità di reddito in modo consente  alle persone di sviluppare al meglio le proprie capacità nel campo dell’apprendimento, soprattutto nei settori ad alto valore aggiunto, come il terziario avanzato.  Quindi per favorire la competitività sarebbe necessario favorire l’accesso alle infrastrutture immateriali, alla conoscenza, ridurre la proprietà intellettuale, incentivare i processi di libera comunicazioni e sviluppare politiche di sicurezza sociale così da permettere  di lavorare al meglio. In Italia, invece, si lavora tanto, (il numero annuale medio delle ore lavorate  è tra i più alti d’Europa), si lavora male e si lavora poco pagati e tutto questo incide pesantemente sul processo produttivo. Si deve quindi intervenire sui fattori che minano lo sviluppo, che sono le politiche di welfare.

Quale ruolo deve avere lo Stato nel mercato del lavoro?

Se guardiamo l’evoluzione italiana in tutto lo sviluppo delle leggi sul lavoro vediamo come questo sistema è stato funzionale solo al mantenimento di certe rendite nel mercato del lavoro e agli interessi del grande padronato italiano (quello, per intenderci, che è rappresentato da Confindustria), favorendo la contrattazione individuale, la ricattabilità dal bisogno, la subalternità culturale, indebolendo e svalorizzando il lavoro come parte debole nella contrattazione. Al riguardo, vi è stata anche l’inadeguatezza dei sindacati che non hanno capito le nuove dinamiche che si sono venute a creare. In questo contesto, lo Stato si è posto come soggetto passivo se non acquiescente. Non è che neghi a prescindere l’utilità di un regolatore, ma vedrei un soggetto, anche lo stesso Stato, che espleti il suo compito sociale in una nuova forma del mercato che tenga conto della frammentazione e delle tipologie di occupazione. Da questo punto di vista sono favorevole a forme di auto-organizzazione sindacale.

Riuscirà il Quantitative Easing della BCE a raggiungere quanto si prefigge?

Sono abbastanza d’accordo, in effetti sono alquanto scettico sugli effetti del QE. Si tratta di una erogazione di soldi al sistema finanziario e bancario, nel 2012-2013 la BCE ha già fornito liquidità per mille miliardi in questi anni per ricapitalizzare le banche e permettergli di superare gli stress test.

Crescita stimata 0,4% , si pensa che il QE possa portarlo allo 0,7-0,8%, è credibile?

Ho molti dubbi al riguardo, bisogna vedere quanti e come  questi 80 miliardi mensili verranno utilizzati, poiché  buona parte verranno destinati a tenere basso lo spread ed abbassare il livello di debito rimborsando i creditori, che in questo caso sono le stesse banche. Viviamo in un sistema in cui le oligarchie finanziarie e la gestioni dei flussi finanziari sono diventati il perno centrale del processo di valorizzazione contemporaneo:  si ricorre al credito bancario solo quando le imprese hanno bisogno di liquidi per fusioni, acquisizioni o scalate. I mercai finanziari hanno oramai sostituito lo Stato come erogatori di welfare tramite i fondi pensione integrativi. Si potrebbe arrivare a una crescita dello 0,8% nel 2015 se fosse possibile (ma oggi non lo è) attuare una politica fiscale comune europea come avviene negli  Stati Uniti, il cui incremento di spesa pubblica  è stata finanziato oltre che dal quantitative easing anche dall’afflusso di capitali esteri.   In Europa non è possibile in quanto non abbiamo una politica fiscale comune e da questo punto di vista la costruzione dell’Europa è fortemente zoppa.  E’ più probabile che si assista (come è avvenuto nel 2013 e in buona parte del 2014) ad una crescita degli indici finanziari ma con l’incognita di fattori destabilizzanti  come le guerre ed i conflitti in essere e il calo del prezzo del petrolio. Probabilmente si amplierà la forbice tra ricchi e poveri peggiorando la crescita economica. Teniamo poi presente che la svalutazione dell’euro è in corso in realtà da 6 mesi e non potrà continuare all’infinito, e comunque solo il 20% degli interscambi europei avviene con paesi fuori dall’Eurozona.

Il carico del solo 20%  sulla BCE e del 80% sulle BCN rende molto scarsa la condivisione dei rischi, in realtà non è ipotizzabile un default, per cui il rischio è in realtà più teorico che reale, dobbiamo quindi ritenere che sia solo un contentino alla Merkel e a Weidmann per motivi di immagine interna alla Germania?

La preoccupazione della Germania è che in caso di default di qualche Stato membro dovesse intervenire il Fondo Salva stati per salvarlo. Ha quindi imposto che le eventuali perdite fossero caricate per l’80% sullo stato membro. Da un lat,  è un elemento stabilizzatore perché evita l’effetto domino, dall’altro è un fattore destabilizzante perché le banche creditrici possono sentirsi meno salvaguardate.

Come vede il futuro della UE? Quali riforme andrebbero introdotte?

Sono totalmente favorevole all’Europa e all’euro, ma deve cambiare radicalmente la sua politica economica. Da questo canto la vittoria di Tsipras con Syriza in Grecia può essere positiva se porta a all’indizione di una  conferenza europea sul debito in cui si ridiscuta anche dell’efficacia delle politiche di austerity.  Vedremo anche se in Italia il governo Renzi è veramente disposto a mettersi in gioco per favorire una reale crescita dell’economia europea. E’ quindi necessaria una road map europea che porti da ora al 2020 le quote di finanziamento pubblico dei singoli stati membri dal 1 al 10% almeno nell’arco di 5-6 anni in modo che si avvii un travaso di politiche fiscali dall’ambito nazionale ad un bilancio unico europeo con una sola politica fiscale armonizzata sulle varie voci. Si deve arrivare a questo fra 20 anni con la possibilità quindi di emettere euro-bond senza chiudersi negli interessi particolaristici nazionali.

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