Love Story (Film, 1970)

Love Story, per la regia di Arthur Hiller, è il padre indiscusso di un certo tipo di cinema strappacuore, al punto che tutti i film italiani che vedono la protagonista morire per colpa di un male incurabile derivano dal soggetto di Segal. Basti pensare a Dedicato a una stella (1976) di Luigi Cozzi, ma anche a Il maestro di violino  (1976) di Giovanni Fago, interpretato da Domenico Modugno e tratto da una sua famosa canzone. Per non parlare dei lacrima movie classici con bambini che muoiono malati di leucemia. come L’ultima neve di primavera, che riprende ambientazioni innevate e l’idea di una colonna sonora struggente.

Il romanzo di successo deriva dal film, non viceversa, come molti potrebbero pensare, e dà il via alla moda delle novelisation che in parte coinvolge la nostra narrativa (molti film di Dario Argento sono diventati romanzi), senza produrre capolavori né fenomeni editoriali. Erich Segal aveva proposto il soggetto ispirato alla vera storia di due studenti del suo corso di letteratura ad alcune grandi produzioni ricevendo una serie di rifiuti, perché giudicato “fuori moda” in un periodo storico pervaso da lotte femministe e clima di contestazione. Avevano torto. Segal ricavò un romanzo di successo dalla sceneggiatura e subito dopo si fece avanti la Paramount per produrre il film. Non solo, anche il regista Arthur Hiller – subodorando l’affare – volle far parte della torta e fondò una seconda società finanziatrice: Love Story Company.

La storia è universalmente nota, narrata come un lungo flashback del protagonista, triste e solitario, davanti a un campo di pattinaggio deserto mentre rievoca il passato. Il meccanismo del ricordo struggente è stato imitato da Raimondo Del Balzo per L’ultima neve di primavera, ma anche da Armando Nannuzzi per L’albero dalle foglie rosa. Segal e Hiller raccontano la grande storia d’amore tra Oliver e Jennifer, che si conoscono all’Università e finiscono per sposarsi, nonostante la differenza di classe sociale che li separa e la netta opposizione della famiglia del ragazzo. Una storia d’amore che si dipana tra le nevi di Boston e New York, coltivando piccoli e grandi sogni, tra litigi che subito si ricompongono e frasi a effetto come la famosa “Amare significa non dover mai dire mi dispiace”. Jennifer è orfana di madre, ama Bach, Mozart e i Beatles; Oliver studia diritto e ama la sua bella di un amore infinito, taglia i ponti con la famiglia di origine e stringe un bel rapporto con il suocero. Regista e sceneggiatore prima ci mostrano la felicità della coppia, ci rendono partecipi di una progettata maternità, quindi – con micidiale mossa strappacuore – ci danno la notizia che Jennifer morirà per colpa di una leucemia incurabile. Il film cambia tono in maniera radicale, persino la musica – pervasiva e immanente – diventa più triste e cadenzata, la macchina da presa del regista si abbandona a lunghe soggettive, dissolvenze e ralenti. L’ultima parte della pellicola è puro lacrima movie, con Oliver che prima cerca di nascondere la verità a Jennifer ma alla fine è costretto a cedere perché la ragazza ha capito che deve morire. La parte ambientata in ospedale vede i due ragazzi abbracciati nel letto di morte di Jennifer ed è stata imitata molte volte dal nostro cinema melodrammatico degli anni Settanta-Ottanta.

Love Story si ricorda per una fotografia nitida e per le immagini zuccherose, per il racconto partecipe di una grande storia d’amore e per una colonna sonora struggente, indimenticabile, composta da Francis Lai, che fa guadagna il solo Oscar alla pellicola (su ben sei nomination). Un buon film intenso e passionale, distrutto dalla critica miope e ideologica del tempo, che gridava al capolavoro solo se vedeva mondine e partigiani (frase di Fulci ma la faccio mia). Paolo Mereghetti (una stella e mezzo): “Un successo confezionato a tavolino: lacrime, romanticismo e un pizzico di ribellismo giovanile in linea con quegli anni, con due protagonisti belli e poco dannati. Le musiche ruffiane di Francis Lai introducono un tocco di Lelouch, ma vincono l’Oscar”.

Pino Farinotti è più buono e concede tre stelle, forse guardando il film dalla parte del pubblico. Morando Morandini (due stelle per la critica, cinque per il pubblico): “Uno strappalacrime in linea con la tradizione hollywoodiana del boy-mets-girl, se non fosse per qualche parolaccia nel dialogo. Bisogna avere un cuore di pietra per non sghignazzare ma, in realtà, piacque moltissimo dappertutto: 48 miliardi di dollari di incasso soltanto nel Nord America e sei nomination agli Oscar, ma soltanto le musiche del francese François Lai, un fido di Claude Lelouch, vinsero la statuetta”.

Due milioni di dollari di budget per un successo mondiale di portata epocale, prodotto dalla Paramount solo perché costava poco e con la promessa di ingaggiare nel cast la bella Ali McGraw, fidanzata con un alto dirigente della casa produttrice. Un film che segna un’epoca e fa nascere un genere, soprattutto in Italia, dove dopo Incompreso (1966) e L’albero di Natale (1969), i fazzoletti erano pronti a irrompere sulla scena e a diventare strumento prediletto per un pubblico a caccia di sentimenti forti. Un modesto sequel di minor successo: Oliver’s Story (1978) di John Korty, che narra l’esistenza inconsolabile di un uomo che ha perduto l’amore della sua vita e non riesce a provare niente per altre donne.

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Regia: Arthur Hiller. Soggetto e Sceneggiatura: Erich Segal. Fotografia: Dick Kratina. Montaggio: Robert C. Jones. Assistente alla Regia: Peter Scoppa. Operatore alla Macchina: Lou Barlia. Scenografie: Robert Gundlach. Musiche: Francis Lai. Produttori: Howard G. Minsky, Arthur Hiller. Produttore Esecutivo: David Golden. Case di Produzione: Love Story Company, Paramount Pictures. Interpreti: Ali McGraw, Ryan O’Neal, John Marley, Ray Milland, Russel Nype, Tommy Lee Jones, Katherine Balfour, Sidney Walker, Robert Modica.

©Futuro Europa®

[NdR – L’autore dell’articolo ha un suo blog “La Cineteca di Caino”]

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