È l’ora dell’Europa
Mentre ci lasciamo assopire dal Festival di San Remo o assistiamo, tra divertiti e indignati, alle gazzarre alla Camera, sul fronte esterno accadono cose capaci di influenzare molto di più la nostra vita. Grecia, Ucraina, Medio Oriente, Libia. E ci rendiamo conto sempre di più, se non siamo ciechi o in mala fede, che la sola, anche se imperfetta, maniera per affrontarle sta nella solidarietà occidentale e, soprattutto, in quella europea. Perché da soli saremmo davvero un vaso di coccio.
Le ultime vicende indicano con eloquenza che, oggi più che mai, è l’ora dell’Europa. La grave situazione della Grecia non ha soluzione possibile fuori dell’Europa. Tsipras lo sa, e sta deludendo i suoi tifosi in Italia e altrove cercando un accordo con Bruxelles, e la Merkel si dice ora più aperta a un compromesso. Vedremo! La strada è ancora lunga, impervia, ma non ce ne sono altre. Il conflitto ucraino è un problema principalmente europeo e l’Europa si è mossa con prudenza e tenacia attraverso i suoi membri più autorevoli sul piano internazionale, Germania e Francia, coinvolgendo direttamente i rispettivi leader. Sarebbe stato certo meglio vedere all’opera il Presidente dell’Unione e il suo Ministro degli Esteri, ma il Presidente scelto lo scorso anno è assai poco rappresentativo e inoltre antirusso, la realtà internazionale è spietata, conta la forza relativa e Putin sa bene dove sta la capacità decisionale. Hollande e la Merkel si sono comunque mossi dichiaratamente in nome dell’Europa e hanno cercato, e ottenuto, l’avallo del Consiglio Europeo.
Europa a due, magari a tre, velocità? Forse, l’importante è che funzioni. E ho l’impressione che Obama, che ha mostrato finora prudenza – rimandando la decisione di fornire armi a Kiev – si sia sentito sollevato, in questa fase almeno, lasciando agire gli alleati europei. L’accordo raggiunto a Minsk contiene molti punti, alcuni dei quali nuovi rispetto all’accordo del settembre scorso non rispettato dai ribelli filorussi. Quelli essenziali sono i seguenti: cessate il fuoco a partire dal 15 febbraio; ritiro dell’artiglieria pesante a 50 e 140 km dal fronte entro il 17; ritiro delle formazioni straniere e disarmo dei gruppi illegali; ripresa della vita normale nelle zone ribelli e amnistia; entro l’anno, riforma costituzionale in Ucraina che permetta un largo decentramento delle regioni. È stato un accordo faticoso, che ha richiesto tutta la pazienza e la tenacia della Cancelliera Merkel e del Presidente Hollande, ma anche disponibilità al compromesso da parte di Poroshenko e dello stesso Putin. Quale sarà il suo avvenire? Nessuno può dirlo con certezza e un certo scetticismo è legittimo alla luce dei precedenti. Gli stessi protagonisti (sarà per scaramanzia?) hanno avvertito contro ogni prematuro ottimismo.
Se si riuscisse veramente a trasferire il conflitto dal piano bellico a quello politico-diplomatico, sarebbe già un immenso passo avanti e almeno altro sangue innocente non sarebbe sparso. Non credo si possa contare per questo sui ribelli, ma molto dipenderà dall’effettivo volontà di Putin di tenere sotto controllo la situazione ed evitare derive pericolose. E dipenderà anche da Obama, che non deve dare ascolto ai “falchi” americani né agli alleati orientali della NATO che cercano una buona occasione per umiliare la Russia. Il nodo centrale della questione, quello che ne condizionerà la soluzione a lungo termine, sta naturalmente nella prevista riforma costituzionale, e questa dipende dalla saggezza delle Autorità ucraine (Presidente, Governo e Parlamento). La riforma deve essere reale e di buona fede, altrimenti non funzionerà. Vi è certo il rischio che una vera decentralizzazione porti prima o poi a un distacco di fatto delle due regioni filorusse e alla lora entrata nell’orbita di Mosca, ma è un rischio assai minore di quello di una guerra che lascerebbe solo macerie.
In Medio Oriente resta di scena la jihad con tutti i suoi orrori. Il fatto nuovo è che ora Obama ha capito la necessità di un impegno più diretto sul campo (lo abbiamo scritto piu volte) e ha chiesto la relativa autorizzazione del Congresso. Paradossalmente, è probabile che quest’ultimo, ora controllato dai repubblicani, conceda al Presidente più di quello che chiede (le riserve vengono dai democratici ed è pensando a loro che Obama ha introdotto nelle richiesta vari autolimiti). Siamo, credo, nella direzione giusta. Se l’IS è un pericolo e siamo in una vera guerra, non ha senso combatterla autolegandosi le mani, o illudersi di vincerla mandando avanti i curdi o gli sciiti iracheni. C’è da pensare che nei prossimi mesi vedremo qualche sviluppo serio, se è vero che i curdi, che stanno resistendo bene a Kobane, sviluppano un’offensiva efficace e l’Occidente saprà aiutarli fattivamente, specie se il fattore Giordania contribuisce a cambiare in meglio l’equilibrio delle forze.
Ma intanto, la jihad sta sbarcando prepotentemente alle soglie di casa nostra, conquistando una posizione dopo l’altra in Libia. Fa bene l’Ambasciata a Tripoli a consigliare agli italiani di andarsene, quale che ne sia il costo economico, ma non basta. E ripeto una domanda già fatta su queste colonne: che pensa di fare il Governo italiano? Che pensa di fare l’Egitto? E che pensa di fare la NATO, che in questa vicenda ha una doppia responsabilità: l’aver contribuito in modo decisivo – su spinta franco-britannica resistita dall’Italia, dalla Germania e poco gradita agli stessi Stati Uniti – a far saltare un regime, sgradevole certo, ma migliore di quello che si minaccia ora; insieme alll’obbligo di assicurare la sicurezza nel Mediterraneo e per i Paesi che si affacciano su questo mare, Italia per prima. Sottrarsi a queste responsabilità sarebbe davvero pericoloso.