Le inesauribili variazioni di Giorgio Morandi
Roma – Fino al 21 giugno, il Complesso del Vittoriano ospita la retrospettiva Giorgio Morandi 1890-1964, così procedendo nel percorso narrativo della pittura italiana del XX secolo. Con la curatela di Maria Cristina Bandera, Roma accoglie le inesauribili variazioni di Morandi, dopo la memorabile esposizione curata da Cesare Brandi alla GNAM nel 1973. Un ampio corpus presenta opere note e meno note, paesaggi, nature morte e pochi ritratti e autoritratti, in prestito da numerosi musei e collezioni private. Un centinaio di dipinti ad olio, sarà affiancato da incisioni, disegni e acquerelli. Sono presenti anche due sezioni con documenti d’archivio dedicate ai rapporti epistolari e critici di Morandi con Roberto Longhi e Cesare Brandi, i due storici dell’arte che per primi riconobbero l’importanza dell’opera di Morandi.
Figlio dell’Accademia di Belle Arti di Bologna, seppur sovvertitore attivo dei suoi dettami, prima come studente, poi come detentore della cattedra di incisione per 26 anni; autoreferenziale, ma come nessun altro capace di rielaborare le avanguardie europee, dal postimpressionismo al cubismo; in continuo rinnovamento, benché così fedele a se stesso, all’essenzialità dell’essenza degli oggetti comuni, al suo formalismo scultoreo. Quest’esposizione ci presenta la ricerca di Morandi, in uno spettro introspettivo qui dipanato come evidenza ordinata tematicamente e cronologicamente.
Direttamente dallo studio del pittore arrivano alcuni oggetti rappresentati nei suoi lavori: una bottiglia, una ciotola, una scatola, un vaso e una conchiglia. Una manciata di oggetti semplici, la cui essenza architettonica prende forma in seguito all’azione del pittore; una forma conferita all’altro da sé, e riconosciuta forse solo allora. Variazioni inesauribili si generano per elementi sul tavolo che rimangono pressoché sempre gli stessi. Sono queste le mutazioni per le quali è conosciuto. La sua è una poesia spaziale da una tecnica pittorica nuova.
Già nel 1916, come testimoniano le nature morte e i quadri di Fiori, il maestro superò la suggestione pittorica cézanniana e del primo cubismo braquiano e picassiano, occupandosi della sintesi formale degli oggetti e della loro riduzione a sagome ritagliate contro lo sfondo secondo un sofisticato processo di astrazione del visibile. Selezionò con attenzione gli ingredienti: da Rousseau prese la sospensione della visione, da Matisse la scala tonale tra l’argenteo, i grigi e i rosa, da Picasso il contatto con la realtà dei collage cubisti. Rilesse, inoltre, in chiave modernista le armonie geometriche di Giotto e Paolo Uccello.
Si dedicò sin dal 1912 all’incisione ad acquaforte. Più volte, l’incisione venne da lui intesa come momento precedente alla pittura: quest’ultima ne fu debitrice, particolarmente verso la fine degli anni Venti in relazione ad alcune soluzioni di controluce e di sovraesposizione luminosa. In questa personale romana, le incisioni sono in via del tutto eccezionale affiancate alle matrici in rame, provenienti dall’Istituto Nazionale per la Grafica, che a causa di problemi di conservazione vengono esposte solo in rarissimi casi.
Negli anni Venti le dislocazioni spaziali si fecero più sfumate, le percezioni più instabili e l’attenzione venne spostata sul tono, la gamma coloristica, e il tocco della pennellata. Le nature morte somigliarono sempre più a costruzioni di oggetti stabili come una architettura, dipinte però con il tocco trepidante di pennello e chiaroscuro soffuso. Con la fine degli anni Venti le nature morte evolsero nella direzione di tele ricche di materia.
Le nature morte degli anni Trenta si distinguono per la giustapposizione di zone uniformemente colorate, dove solo le differenti qualità di tono fanno intuire la reciproca collocazione degli elementi nello spazio. Mentre, i paesaggi dello stesso periodo si presentano all’occhio come macchie campite di una pennellata matericamente ricca e risentita nel tratto. Solo verso il 1938, in una serie di opere presentate alla Quadriennale del 1939, Morandi ricominciò a dare rilievo ai volumi degli oggetti attraverso forti stacchi di colore, rosso o turchino.
Dal 1940 al 1945 Morandi dipinse molti paesaggi e tre serie distinte di nature morte. Le realizzazioni più eccezionali della guerra sono i paesaggi dipinti a Grizzana, luogo della casa estiva di famiglia, fino al 1944, dominati dalla desolazione degli scorci e dalla freddezza della gamma cromatica. Nell’immediato dopoguerra Morandi abbandonò completamente il paesaggio, concentrandosi su nature morte dominate da una luce nitida e chiarissima, capace di trasfigurare gli oggetti e ridurli a forme prive di consistenza reale.
Negli acquarelli, che realizzò con continuità dopo il 1957, potenziò il bianco del foglio come valore costruttivo, con effetti di una inquietante sospensione emotiva. Nei paesaggi, che riprese a dipingere nel 1954 dopo un intervallo decennale, la visione si fece progressivamente astratta, con un’attenzione sempre maggiore alle ambiguità spaziali.
Nei secondi anni Cinquanta, due dichiarazioni inserirono Morandi nel dibattito internazionale sull’astrazione pittorica. In un’intervista registrata nel 1955, dichiarò la sua strenua fedeltà al mondo del visibile, in sé astratto perché traducibile soltanto in puri rapporti matematici; nel 1958 al critico francese Edouard Roditi, ribadì: “Nulla può essere più astratto, più irreale, di quello che effettivamente vediamo.” Gli oggetti protagonisti delle sue tele, ora fisicamente davanti ai nostri occhi e annullata qualsiasi distanza spaziale, non perdono alcuna aura, se l’aura del reale è quella a essi attestata.