Legge elettorale, ultimo appello al buon senso
La Legge elettorale è ormai all’esame della Camera ed è scontro, non solo tra Governo e opposizioni (com’è normale) ma tra maggioranza e minoranza del PD.
Nutro scarsissima simpatia per gli eterni falliti e piagnoni alla Bersani e compagnia, e confesso che quando appare in TV Fassina, mi si aggriccia la pelle. Devo però ammettere (una rondine non fa primavera) che, sulla Legge elettorale, mi trovo d’accordo con loro. La Legge ha un aspetto chiave: il ballottaggio tra le due liste che hanno avuto più voti al primo turno. È il modo per assicurare, dopo tanti fallimenti, che le elezioni portino a una maggioranza certa e autonoma, a cui spetterà il diritto-dovere di governare per cinque anni. Una maggioranza vera, non artificiosa e truccata, che rappresenterà la metà più uno almeno dei votanti. Questa norma non va, ovviamente, cambiata. E se si prevede che chi, nel ballottaggio, supera il 50%, riceva alla Camera qualche seggio in più per mettere il Governo al riparo dagli incidenti dovuti ad assenze o colpi bassi dei franchi tiratori, va bene (era quello che prevedeva la tanto discussa riforma elettorale degli anni Cinquanta, che la sinistra in blocco definì “Legge Truffa”, ma i tempi cambiano!). Il premio di maggioranza a chi riceve più del 40% è invece, non solo discutibile sul piano democratico, ma probabilmente incostituzionale. Conferisce un potere non corrispondente alla realtà elettorale e quindi non legittimo: un potere che invece deve essere dato solo dal voto del secondo turno.
Sulla questione delle preferenze, da una parte non si può non ricordare gli inconvenienti che il sistema provocava nella Prima Repubblica (e continua a provocare nelle elezioni all’estero: ne sono stato vittima personalmente nel 2006). Inconvenienti tanto seri che portarono a un referendum che abolì le preferenze plurime, lasciandone una sola. D’altra parte, capisco bene che le preferenze sono uno strumento di democrazia basica, perché permette agli elettori, una volta scelta una lista, di scegliere anche in concreto le persone da cui vogliono essere rappresentati. Le liste “bloccate” vigono in Paesi di democrazia dubbia, e sanno da lontano di autoritarismo di partito. Non è un caso se sono state introdotte in pieno berlusconismo. La Corte Costituzionale sostanzialmente le ha bocciate. In conclusione, penso sia giusto che la “preferenza unica”, che corrisponde alla volontà popolare espressa nel referendum del 1992, vada ripristinata.
La Legge, nella sua formulazione approvata dal Senato, accoglie in parte questo principio, escludendo dalle preferenze i soli capilista. Poco male, tutto sommato, se i principali esponenti dei partiti restano al di fuori della competenza interna (questo si otteneva in tempi di proporzionale e preferenze con la “Lista nazionale” in cui confluivano i maggiori leader delle rispettive forze). Il problema è che, avendo moltiplicato il numero dei collegi elettorali e avendone ridotto le dimensioni e quindi il numero degli eletti in ciascuna di esse, una buona parte dei deputati sarebbero eletti, in tutti i partiti, come capilista fuori delle preferenze. Bersani sostiene che sarebbero il 50% degli eletti. Credo che esageri, ma comunque si tratta di un numero significativo
Come nel caso del premio di maggioranza, le norme sulle preferenze nascono originariamente dal patto con Berlusconi. Questo patto è saltato. Perché Renzi vi resta ancorato? È legittimo pensare che dietro vi sia un suo disegno diretto a controllare i suoi parlamentari. Designando i capilista, si assicurerebbe (lui come gli altri capi-partito) un nucleo relativamente docile. Dall’altro lato, la resistenza della minoranza del PD, dietro le apparenze di battaglia democratica, risponde in realtà alla volontà di assicurarsi la sopravvivenza politica. Chi può pensare che alle prossime elezioni Renzi, se resta Segretario del PD, candidi come capilista i vari Bersani, D’Alema, Fassina, Civati, Cuperlo? Non ci scandalizziamo troppo: la politica è anche questo.
Pero queste cose né Renzi né i suoi avversari le diranno mai apertamente. Il Premier usa come argomento per rifiutare ogni cambiamento alla Legge l’inopportunità di doverla ripresentare al Senato, dove i numeri sono più incerti. L’argomento è, francamente, debole. Se tutto il PD e tutta la maggioranza si ritrovano su un testo condiviso, il voto del Senato è certo, magari con l’ausilio di qualche volenteroso. L’ostinazione del Premier rischia dunque di apparire una forzatura autoritaria, o magari il frutto della sua comprensibile irritazione verso chi non fa che mettergli i bastoni tra le ruote.
Speriamo che ci sia ancora tempo e margine per comprendere che, in certe situazioni, conviene fare un passetto indietro anche quando si è sicuri di vincere, perché certe vittorie sono vittorie di Pirro. Se a Renzi costa rinunciare ai capilista “bloccati”, almeno riduca il numero dei collegi e quindi dei capilista stessi. E rinunci al premio di maggioranza al primo turno, garantendo così la Legge dal dubbio di incostituzionalità che non è da sottovalutare. Dopotutto, la sentenza della Consulta che aboliva l’orrido “porcellum” è ancora fresca d’inchiostro. E se le modifiche richiedono un nuovo passaggio al Senato e quindi qualche mese in più per l’approvazione definitiva della Legge, poco male. Dove sta l’urgenza se le elezioni, a sentire il Premier, non sono per domani? È sempre meglio avere una buona legge con un poco più di tempo che una legge contestata fatta in fretta.
Un Commento
Il ballottaggio nazionale tra le prime due liste mi pare invece l’aspetto peggiore dell’Italicum, perchè se ci fossero 4 partiti tutti intorno al 25% due di essi verrebbero esclusi dalla possibilità di andare al governo mentre ne verrebbero promossi altri due che magari hanno preso solo una manciata di voti in più… inoltre, dato che non sono consentiti gli apparentamenti, gli elettori dei due partiti esclusi sarebbero portati a non partecipare al voto al secondo turno: il vincitore del ballottaggio potrebbe dunque essere scelto da circa la metà degli elettori che hanno partecipato al primo turno – e quel partito avrebbe comunque il 55% dei seggi alla Camera… tutto questo mi pare molto poco democratico.
Il vizio di base dell’Italicum è che pretende di applicare la logica dell’elezione del sindaco – cioè una carica amministrativa monocratica – all’elezione dei parlamentari, cioè di un’assemblea legislativa: l’obiettivo, ovviamente, è quello di introdurre l’elezione diretta del premier (il leader del partito vincitore) sotto mentite spoglie, cioè mantenendo formalmente la struttura della Repubblica parlamentare.
Quanto al legame diretto tra elettori ed eletti, l’Italicum peggiora di molto la situazione non solo a causa dei capilista bloccati, ma anche perchè prevede candidature multiple, il riparto nazionale dei seggi e il premio di maggioranza: a causa di tutti questi fattori combinati, potrebbe persino capitare che lo stravincitore di un collegio non entri in Parlamento.
Spero davvero che ci sarà un ripensamento, anche perchè purtroppo – a differenza della riforma costituzionale – sulla legge elettorale il referendum confermativo non c’è.