Cronache dai Palazzi
Italicum sotto tiro. La minoranza dem assedia Matteo Renzi rifiutandosi di votare la nuova legge elettorale, mentre il capogruppo Speranza si dimette: “un atto politico che meriterebbe una riflessione”, come afferma Gianni Cuperlo. “Resto profondamente convinto che sia un errore politico madornale non cambiare la legge elettorale alla Camera, per approvarla a maggio qui e a luglio al Senato”, ha ribadito Roberto Speranza da Montecitorio dove si è svolto il 70° anniversario della Resistenza. Speranza sottolinea che non sta giocando, anche se alcuni compagni di partito vagheggiano l’idea che il capogruppo potrebbe tornare al suo posto.
Il premier segretario non è comunque disposto ad abbandonare la linea dura e dimostra tutto il suo scetticismo, oltreché il proprio sconforto, di fronte ai dissidenti di partito “disposti a riportare l’Italia nella palude”, e ben intenzionati a far deragliare il treno del suo governo proprio a proposito di Italicum. L’ex segretario, Pier Luigi Bersani, assicura comunque che l’obiettivo della minoranza non è “far cadere il governo, ma convincere a modificare il percorso”. E per di più, aggiunge il padre della “Ditta”, “io non vado fuori dal Pd, non esiste perché è casa mia”.
Tutto ciò mentre il ministro delle riforme, Maria Elena Boschi, sottolinea che il gruppo del Pd “ha discusso e ha votato scegliendo la linea della direzione”, parole che non lasciando intravedere toni concilianti. La minoranza si è riservata infatti di continuare la battaglia sull’Italicum in commissione e poi in Aula, contando magari sulla comunione di intenti che potrebbero manifestare FI, Sel e M5S.
Renzi avverte: “La legge elettorale non è il Monopoli, non si torna al Vicolo corto”. La fiducia però è troppo rischiosa, aleggia come uno spettro e all’interno del vertice del partito nessuno osa rimembrarla. Con Renzi però tutto è possibile, rafforzato inoltre da un ultimo avviso del Colle. Il Quirinale fa sapere infatti che il dibattito sull’utilizzo o meno dello strumento della fiducia da parte del governo in materia di riforma elettorale non riguarda le prerogative della presidenza della Repubblica.
La tattica di non presentare emendamenti, che il premier aveva avanzato ai dissidenti, sembra inoltre non aver funzionato, tantoché gli emendamenti sono circa 35 e almeno 4-5 di questi riguardano le preferenze e gli apparentamenti al secondo turno. Il vero scontro si consuma proprio qui, tra gli emendamenti che vorrebbero concedere il premio alla coalizione e non alla lista, e quindi al partito con più voti. Tutto ciò per Matteo Renzi depotenzierebbe il bipartitismo, e non è escluso che con la soglia del 3% ai partiti minori si aprirebbero spazi di trattativa un po’ a tutti.
Altra polemica quella contro un “Parlamento di nominati”, a causa dei cento capilista bloccati previsti dall’Italicum. I deputati dem potrebbero in sostanza aggregarsi agli oppositori di M5S, Forza Italia e Sel trasformando l’Aula di Montecitorio in un vero e proprio Vietnam. Il clima è di sospetto e di astio reciproco. Brunetta parla di “golpe” Alfonso Scotto (Sel) di “Sovieticum”. Susanna Camusso polemizza di nuovo contro l’uomo solo al comando e dichiara che in questo momento non voterebbe Partito democratico.
A proposito di Italicum Mario Mauro, presidente dei Popolari per l’Italia, infine sottolinea: “Nell’anno in cui celebriamo i 70 anni della Resistenza che ha dato senso alla storia di libertà e democrazia del nostro Paese ci accingiamo con un voto beffardo a lasciarci alle spalle il pluralismo istituzionale e la solidità delle istituzioni democratiche per tornare a correre dentro le avventure di un uomo solo al comando. Dopo la legge Acerbo, l’Italicum diviene la cifra dell’involuzione della nostra democrazia”.
Il senatore dei Popolari per l’Italia Tito Di Maggio inneggia invece alla caduta del governo, e fa notare che “la posizione della minoranza del Partito democratico non può fermarsi al semplice dissenso”. Anche per Di Maggio “la riforma elettorale voluta da Renzi mette a rischio il sistema democratico del Paese”. In sostanza “non si tratta di dividere o meno il Pd, ma c’è in gioco molto di più, la stessa democrazia. E se per salvaguardare la democrazia occorre realizzare la minaccia di Renzi della caduta del governo, che il governo cada”, chiosa Tito Di Maggio specificando che “i Popolari per l’Italia contribuiranno a farlo cadere”. Gli fa eco il Vicepresidente dei Popolari per l’Italia Potito Salatto: “Siamo al momento della verità per le forze democratiche. Tra la caduta del Governo e il tramonto della democrazia, meglio le elezioni anticipate”.
Nonostante tutto i renziani ribattono che la fiducia “non sarebbe uno scandalo”, anche se sarebbe una forzatura. Alla fine, comunque, per Renzi “hanno tutti paura di andare in campagna elettorale”, e le opposizioni non farebbero cadere il governo. Si tratta però solo di ipotesi renziane. Di certo andare al voto con il Consultellum e le liste bloccate vorrebbe dire realizzare un vero e proprio repulisti, che Renzi potrebbe usare a suo favore.
“La discussione sulle riforme è finita”, ammonisce il premier, e “il governo deve tornare a parlare di economia, crescita e lavoro, non di collegi e preferenze”. Renzi è convinto, inoltre, di avere “almeno 50 voti di margine” e confida, per di più, nel soccorso dei “verdiniani” di Forza Italia, pronti a inviare le loro scialuppe di salvataggio in caso di emergenza. Anche in quest’ultimo caso, però, occorrerebbe considerare il nulla osta che potrebbe provenire da Berlusconi. “Al massimo diranno ‘no’ 20,30 di loro” affermano in definitiva i renziani, convinti che alla fine nel Pd tutti, o quasi, voterebbero sì.
Resta il problema politico di una eventuale scissione a poche settimane dalle regionali. Presentandosi alle elezioni così sfrangiato il Pd non farebbe di certo una buona impressione. C’è chi però avverte che il confronto duro in assemblea non sempre si traduce in un voto contrario in Aula. “L’assemblea del gruppo è una sede politica, poi in Aula è diverso, è la sede istituzionale – afferma Damiano spingendo verso una mediazione – nella prima il dissenso è normale che si manifesti, nessuno mena scandalo. Ma quando si voterà in Parlamento è tutt’altro discorso”. In sostanza la trasformazione delle decine di no all’Italicum affiorate in assemblea in altrettanti dischi rossi nel voto dell’Aula non è automatica.
“Siamo profondamente divisi, ma il confronto tra tutte le posizioni non può essere ridotto ad un derby”, sottolinea Matteo Renzi, pur non rinunciando all’ipotesi di porre la fiducia sulla legge elettorale per “evitare la palude” dei voti segreti e, nel contempo, aprendo su eventuali modifiche alla riforma costituzionale. In questa prospettiva per Bersani “il combinato disposto tra Italicum e riforma che abolisce il Senato è molto pericoloso”.
Per Renzi la nuova legge elettorale non va ostacolata perché è “il simbolo del cambiamento” e al gruppo parlamentare espone ben cinque motivi per cui l’Italicum dovrebbe essere votato: “1) Tecnicamente funziona; 2) è in linea con la storia del Pd; 3) il governo è legato alla legge elettorale; 4) si riafferma il primato della politica; 5) il Pd ha salvato il Paese dalla palude e ora bisogna lavorare al Paese dei prossimi 20 anni”.
Alla fin fine, per il presidente del Consiglio il bipolarismo è il nocciolo della polemica inalberata dalla minoranza dem di concerto con le opposizioni. “Noi vogliamo un cambio di sistema – insiste Renzi – vogliamo l’innovazione e non vogliamo fare un passo indietro sul bipolarismo”. Un bipolarismo che per Matteo Renzi “significa bipartitismo”.
Le critiche esposte a sfavore della nuova legge elettorale – “attaccandola e cercando di fermarla”, ammonisce Renzi – non sarebbero le preferenze o i capilista bloccati, bensì “quello che si vuole bloccare è il bipolarismo e la sua evoluzione”. Renzi punta quindi il dito contro i cosiddetti “i conservatori”: coloro che “tentano in tutti i modi di non farci andare avanti con le riforme”. Ma questa legislatura ha un senso “solo se fa le riforme, e noi vogliamo farle”, chiosa il presidente del Consiglio.
Quale sarà l’epilogo di una discussione tanto tormentata, in pratica come andrà a finire, è prematuro dirlo o immaginarlo. L’Italicum sarà discusso in Aula a maggio – il 27 aprile l’arrivo alla Camera – e solo allora si capirà se Renzi sceglierà di rischiare sfidando i circa 10 voti segreti, oppure se deciderà di indossare lo scudo-fiducia per fronteggiare l’Aventino delle opposizioni, che in questo frangente si sono già appellate al presidente della Repubblica denunciando “lo strappo costituzionale” (Forza Italia, Fratelli d’Italia, Lega) provocato da un’eventuale fiducia sulla legge elettorale. “L’Italicum è una scelta eversiva di un dittatorello di provincia”, ha sarcasticamente affermato Renato Brunetta (FI).
Il Quirinale per ora segue attentamente ma a distanza l’evolversi delle vicende parlamentari e prende le distanze dallo scontro: entrare nella dialettica tra governo e Camere sarebbe un’invasione di campo sia nel merito sia sul metodo. Di certo, per il bene del Paese e della politica italiana, l’unico finale da evitare a proposito di legge elettorale sarebbe il nulla di fatto.
Nel frattempo Matteo Renzi è volato negli Usa per il vertice con Obama. Prima tappa l’università di Georgetown, alla cui platea selezionata il premier italiano ha spiegato l’avanzamento “forzoso” delle riforme in Italia e la non semplice battaglia per tentare di smussare la politica economica rigorista dell’Ue. I due leader discuteranno inoltre di Libia, fronte che più volte gli Stati Uniti hanno “affidato” all’Italia ma sul quale ora Roma vorrebbe un passo avanti a livello internazionale. La formazione di un governo di unità nazionale a Tripoli rimane la premessa di qualsiasi operazione di peace-enforcement, ma in questo frangente il primo obiettivo è contrastare l’avanzata dell’Is. Palazzo Chigi ci tiene a sottolineare che la battaglia contro il terrorismo in questo momento prescinde dalla stabilizzazione politica dell’area. In pratica l’intelligence italiana è in grado di individuare gli obiettivi ma gli Usa dovrebbero offrire i loro droni per portare a termine gli interventi chirurgici. Il ministro degli esteri, Paolo Gentiloni, ha consegnato al premier Renzi una cartellina dettagliata da portare con sé negli Stati Uniti e in un’intervista al Corriere della Sera Gentiloni spiega, inoltre, come i droni americani potrebbero rivelarsi chiaramente utili anche per il controllo delle coste e in operazioni contro il traffico di esseri umani.
Roma cerca una sponda, infine, per invertire la politica economica restrittiva dell’Unione europea. Renzi fa affidamento sull’appoggio di Obama per convincere Angela Merkel e Bruxelles a rilanciare gli investimenti e l’occupazione. “Barack ha realizzato una politica di investimenti economici che l’Ue ha totalmente mancato – spiega Palazzo Chigi -. È lui il modello da seguire”.
L’Italia “diventerà un Paese diverso”, assicura Pier Carlo Padoan ad un gruppo di investitori americani, incontrati a New York per aggiornarli sul cammino delle riforme strutturali e istituzionali in corso in Italia. Fondo Monetario e Banca Mondiale sono le altre tappe del viaggio in America di Padoan. In Italia la realizzazione delle riforme contribuirà alla ripresa dell’economia e, celando i disordini interni, Padoan sottolinea che “un governo stabile porterà a più fiducia, più investimenti, meno costi e più risparmi”. “You are Welcome” (siete i benvenuti): è questo l’invito che il ministro dell’Economia italiano rivolge alla comunità imprenditoriale americana spronandola a credere e a scommettere sull’Italia, “un Paese dalle opportunità crescenti”, secondo Padoan.