Italia e Stati Uniti, un’amicizia necessaria
Le visite dei Primi Ministri italiani a Washington, chiunque sia il Presidente USA, sono sempre improntate a grande cordialità. Nei miei ricordi, ce ne fu solo una imbarazzante, quella di Andreotti a Carter al tempo del “compromesso storico”, quando gli Stati Uniti stentavano ad accettare un’operazione politica che a loro appariva carica di rischi e per parte sua Andreotti, con quella sorta di opacità che velava, a lui come a Moro e a Fanfani, la normale sottigliezza quando si trattava della mentalità anglosassone, non riusciva a capire le preoccupazioni americane (allora i colleghi che con me lavoravano alla NATO ed io stesso passammo inutili ore a tentare di spiegargli le ragioni della diffidenza degli alleati verso quelli che, a quell’epoca, erano ancora i nemici).
Da allora, le cose sono andate sempre lisce e le ragioni sono evidenti: per gli Stati Uniti, l’Italia è un punto d’appoggio essenziale nel Mediterraneo e un alleato fedele nella NATO. Per l’Italia, la presenza militare americana nel Mediterraneo e in Europa è la sola vera garanzia per la nostra sicurezza. Lo è stata nei quarant’anni della Guerra Fredda, lo è stata al tempo della crisi nei Balcani, lo è ancora adesso che si addensano nuvoloni oscuri sulle rive sud. Non ci illudiamo, non ascoltiamo i pifferai di turno, non aspettiamo un esercito europeo: che beninteso va creato (in realtà, la sua assenza è frutto di ignavia politica, non nostra) ma da solo non servirebbe, per infinite ragioni tecniche che non vale neppure la pena ricordare, a sostituire la forza degli Stati Uniti nella nostra zona vitale. Va riconosciuto a quasi tutti i governi italiani di aver tenuto sempre presente questa realtà. Ad essa si convertirono prontamente anche i politici di origine comunista, come Giorgio Napolitano, D’Alema, Veltroni, persino Occhetto. Di Berlusconi non parliamo neppure!
Per molto tempo, l’atteggiamento americano nei nostri confronti è stato di benigna, spesso paziente, considerazione. Gli alleati seri, quelli considerati vitali, erano l’Inghilterra e la Germania. Poi le cose sono cambiate. Per averlo vissuto, faccio risalire questo cambiamento alla nostra partecipazione attiva alle operazioni in Bosnia e poi in Kossovo e, in seguito, in Afghanistan e in Irak. C’è poco da fare: un Paese si fa prendere sul serio non solo se ha un’economia rilevante nel quadro mondiale, ma se ha il coraggio di prendersi le sue responsabilità anche sul piano militare. Ricordiamo che questa linea non è né di destra né di sinistra: l’intervento nei Balcani lo decisero i Governi Dini e D’Alema, quello in Irak e Afghanistan il Governo Berlusconi.
Alle tante ragioni obiettive si uniscono, come è umano, fattori soggettivi, cioè quel “feeling” personale che talvolta esiste tra leader mondiali e talvolta no. Esisteva senza dubbio tra George W.Bush e Berlusconi (come tra questi e Putin); esiste, e non è strano, tra Obama e Renzi. Sono leader giovani, che appartengono alla sinistra riformista, con idee molto simili sullo sviluppo economico. Affrontano ambedue un’opposizione conservatrice (Renzi, in più, ha anche a che fare con una suicidaria fronda sulla sinistra). E ci sono problemi contingenti che rendono la collaborazione USA-Italia più che mai necessaria ora. La Libia è oggi il punto più caldo e pericoloso per la nostra sicurezza. Proporre una guida italiana per una soluzione diplomatica va bene (anche se finora non mi sembra che l’offerta sia stata salutata da applausi generali) ma alla fine l’uso di una forza adeguata, o almeno la possibilità di usarla, in appoggio a quelle che saranno identificate come Autorità rappresentative, resta decisivo. Non si tratta ora di sapere se si useranno o no droni per colpire le forze islamiche: questo è solo un aspetto della questione. Si tratta di sapere se gli Stati Uniti sono disposti a usare la rilevante forza di cui dispongono nel Mediterraneo e che ha la Sesta Flotta come punto centrale, per intervenire, almeno nel caso estremo ma non improbabile, che la nostra sicurezza (cioè la sicurezza di un membro dellla NATO) fosse in pericolo.
È certo che questo tema è stato affrontato nei colloqui di Washington e confido che Renzi non sia di quei politici abituati a parlare per sottintesi e ambiguità. È comprensibile che sulle decisioni eventualmente prese si mantenga il segreto. Ma spero che ve ne siano state e siano concrete ed efficaci. Lo vedremo nelle prosime settimane e mesi.