Ombrine e trivelle
La tecnologia da una parte ed il consenso popolare dall’altra consentirebbero oggi di ricavare tutta l’energia necessaria al nostro Paese, e al mondo intero, dalle fonti rinnovabili: come l’italianissima Solare Termodinamica a Concentrazione, sviluppata da Enea, Enel con il Nobel Rubbia. E invece sull’energia ci troviamo a vivere in questi anni uno degli esasperanti paradossi della nostra Italia: perché le decisioni dell’economia da una parte e della politica dall’altra stanno facendo sì che proprio il nostro Paese, che ha ostacolato la realizzazione di impianti solari a concentrazione per il presunto impatto ambientale di specchi e tubi di sali fusi non infiammabili, si stia trasformando in un piccolo Eldorado del petrolio con trivelle svettanti sull’orizzonte e oleodotti pieni di liquido infiammabile a pochi chilometri da spiagge e scogliere dal valore paesaggistico-ambientale inestimabile. Come se il prezzo del petrolio fosse ai massimi, così da giustificare almeno economicamente la cosa per via delle sostanziose royalties. E come se i rischi non esistessero, come ricorda quello che accadde giusto cinque anni fa, il 20 aprile del 2010, quando, pochi giorni dopo le rassicurazioni di Obama sulla sicurezza dei nuovi impianti, la marea nera fuoriuscita dalla piattaforma petrolifera ‘Deep Water Horizon’ deturpò per 106 giorni con 550 mila tonnellate di greggio il golfo del Messico. E si portò via la vita di 11 persone.
Come mai? Succede per una serie di motivi. Il primo: spesso i depositi marini affiorano, e quindi sono meglio sfruttabili, proprio sottocosta dove gli strati geologici si sollevano. Ebbene, l’articolo 35 del Decreto Sviluppo approvato il 26 giugno 2012 ha riaperto la strada alle attività di prospezione petrolifera anche nelle aree sottocosta e di maggior pregio. E la ‘liberalizzazione delle trivelle’ dello Sblocca Italia di Renzi ci ha messo il carico. Secondo: il petrolio presente nei nostri giacimenti è di qualità medio-bassa. Ma l’Italia garantisce ai petrolieri di poter pagare royalties particolarmente ridotte, il che rende conveniente sfruttare anche giacimenti di qualità inferiore. Triste, ovviamente, la svendita di paesaggio e sicurezza per pochi spiccioli. Il tutto è puntualmente documentato da numerosi studi tecnici, fra i quali quelli delle associazioni ambientaliste, come nel caso dei dossier di Legambiente; ma è ormai pane quotidiano anche per le comunità locali, i comuni, i sindaci, le associazioni, i tecnici, i professionisti, gli esperti delle aree costiere che stanno vedendo sorgere le torri, gli approdi per le navi che effettuano la lavorazione e gli oleodotti dei nuovi impianti non più oltre l’orizzonte, ma ormai a pochi chilometri dalle proprie spiagge: tutta la riviera adriatica da Ravenna al Molise, e poi di nuovo il Salento, la costa Jonica della Puglia, della Calabria e della Basilicata, la Costa meridionale della Sicilia e quella orientale della Sardegna.
Per limitarsi al solo petrolio, in questo momento in Italia sono già in funzione 13 piattaforme con 69 pozzi. Ma due piattaforme sono in attesa di autorizzazione ed hanno parere positivo da parte della Commissione per la Valutazione di Impatto Ambientale, una proprio a due colpi di remo dalla costa abruzzese. Ci sono poi 15 permessi di ricerca rilasciati, di cui 6 nel Canale di Sicilia, 1 nello Jonio e 7 nell’Adriatico; 45 istanze di permessi di ricerca; 8 istanze di permessi di prospezione che interessano l’Adriatico, il Canale di Sicilia, lo Jonio e l’area tra la Sardegna e le isole Baleari. Per un espediente di marketing, che però ha avuto esiti non calcolati di beffa o di umorismo nero come il petrolio, ad alcune delle piattaforme già in opera o da realizzare sono stati dati i nomi rassicuranti di pacifici pesci o uccelli: ‘Ombrina’ quella che dovrebbe sorgere a tre chilometri dalla Costa dei Trabocchi, il litorale abruzzese di Francavilla a Mare, Ortona, San Vito, Fossacesia. ‘Sarago’ un’altra piattaforma.‘Vongola’ un’altra. E ‘Rospo’ (A,B eC) e ‘Aquila’, 1 e 2., altre ancora. Un po’ come chiamare ‘Parco Tal dei Tali’ un centro commerciale in cemento armato, o ‘Parco XY’ un complesso abitativo; e sulla lunghezza d’onda beffardo-incantatoria della ‘valorizzazione’ dei suoli col cemento, e della ‘coltivazione’ delle cave.
Intorno all’autorizzazione dei nuovi impianti sono sorti, come italica tradizione prevede, i contenziosi di rito che puntualmente spaccano il fronte paesaggista-ambientalista e non premiano gli interessi dell’Ambiente: un caso per tutti quello di questi giorni che riguarda Ombrina Mare, con Legambiente e WWF schierate per l’istituzione del Parco della Costa Teatina con la promessa pubblica che il Parco stesso potrebbe scongiurare il via libera definitivo alla piattaforma, ed i sindaci dei Comuni interessati che tornano da ‘Roma’ con le pive nel sacco, avendo appreso che i soldi per il Parco non ci sono ed in ogni caso questo non scongiurerebbe la realizzazione dell’impianto. Il tutto mentre la maggioranza in Consiglio regionale vuole approvare una ‘risoluzione’ contro l’impianto, atto che in sé non serve a niente, che è utile solo perché ‘impegna’ la Giunta a fare qualcosa, ma inutilmente perché la Giunta regionale non ha più competenza sulla materia. Grazie allo Sblocca Italia di Renzi. E non è che la politica abruzzese, per di più divisa in Consiglio regionale, abbia la forza per far la voce grossa contro ‘Roma’.
Ma come mai il petrolio in Italia salta fuori solo adesso, desideratissimo da petrolieri di tutto il mondo, basta vedere i nomi di chi richiede le concessioni, e non quando, come negli anni dell’Austerity e ancora con le Rinnovabili poco produttive ed evolute, ne abbiamo avuto un disperato bisogno? Nessuno se lo chiede, ma dovrebbero chiederselo per primi gli oppositori delle trivelle, se fossero davvero in cerca di sostegno politico e argomenti forti. Viene da immaginare che in quegli anni l’Italia non diede fondo al suo tesoro oleoso perché i Governi di allora tutelarono i giacimenti nazionali in quanto riserva strategica, da sfruttare, eventualmente, con grande prudenza, come avveniva ed avviene ancora in tutti i Paesi avveduti del mondo. E per questo i nostri giacimenti non vennero saccheggiati e le royalties vennero tenute, in previsione di rovesci estremi, a livello basso a vantaggio delle imprese italiane. Oggi, con gli ultimi Governi, sfruttiamo i nostri giacimenti perché, viene anche qui da immaginare, rientrano nell’elenco dei gioielli di famiglia del Bel Paese che questi Governi, non eletti, sembrano avere la ‘mission’ di alienare. E come se non bastasse, la svendita del petrolio italiano è un pessimo affare perché avviene pure quando, come ora, il petrolio costa meno, quindi con ulteriore riduzione del gettito, già basso, delle royalties. Insomma, non sono solo ambiente e paesaggio ad essere messi in crisi con le trivelle, ma anche l’interesse nazionale: che soffre perché da tempo non trova espressione in un mandato elettorale.
[NdR – L’autore cura un Blog dedicato ai temi trattati nei suoi articoli]