Mai più
Oggi si compiono settant’anni dal 25 aprile 1945, una data che segnò la fine della tragedia della guerra e l’inizio di un’era nuova. Non sono ormai più moltissimi quelli che l’hanno vissuta. Io avevo dieci anni e vivevo in Puglia, nella casa di famiglia. Per noi la guerra era finita prima, con l’arrivo dell’ottava armata anglo-americana nell’ottobre del 1943. Ma quello che avveniva a nord teneva tutti i miei – soprattutto mio padre, allora Presidente del CLN locale, e mia madre, che aveva lasciato i genitori a Roma – ansiosamente attaccati alle notizie che trasmetteva in tono solenne e talvolta funereo la radio. C’era stato l’incubo di Montecassino, poi l’entrata degli Alleati a Roma, ma dovevano passare ancora dieci lunghi mesi perché la guerra finisse in tutta Italia. Ricordo come se fosse ora l’annuncio della resa delle truppe tedesche. Era come se d’improvviso tutte le campane fossero state sciolte e rintoccassero nel terso cielo di primavera. Si respirava un’aria nuova, piena di speranza. Si intravvedeva un futuro finalmente di pace, di libertà, di ricostruzione.
È onesto riconoscere che molte di quelle speranze si sono realizzate, altre sono state tradite, come è normale nelle cose umane. Ma quella data segna uno spartiacque nella nostra Storia nazionale. Era da sperare che con essa finissero anche i conflitti fratricidi, i regolamenti di conti, le inutili stragi. Così purtroppo non fu. C’era da sperare che quell’evento liberatore, superate le passioni del momento, facesse da elemento unificatore per un Paese alla fine riconciliato con sé stesso. Ma di quell’evento collettivo si impadronì una parte politica, il ricordo della Liberazione divenne esaltazione della Resistenza partigiana, e questa fu identificata con una sola componente, quella rossa. Facendo passare in secondo piano l’apporto decisivo degli Alleati e dimenticando comunque che nella Resistenza c’era di tutto: comunisti, socialisti, ma anche indipendenti, liberali, cattolici, monarchici (basti citare tra tutti il gruppo Giustizia e Libertà).
A settant’anni di distanza, è venuto il momento di ricordare queste ed altre verità, che per certuni sono sempre state scomode e quindi da ignorare o negare. La prima è che tra gli italiani non tutto il bene e non tutto il male stavano da una parte sola. Tra quelli che lottavano c’erano anche dall’altra parte persone, giovani per lo più, che difendevano un proprio ideale di Patria e di onore. La loro sconfitta non può essere un fattore di condanna morale e chi è caduto lottando in buona fede su fronti opposti merita egualmente pietà. La seconda verità è che, dopo la spietata durezza delle repressioni sotto l’occupante, seguì un periodo di vendette e di esecuzioni da parte dei partigiani, a cominciare da quella, barbara, di Mussolini. Non si sa con certezza quanti furono uccisi in quel periodo, soprattutto al Nord, ma si tratta certamente di migliaia, e tra di loro c’erano colpevoli e innocenti, aguzzini e gente perbene che non aveva fatto torto a nessuno, e anche alcuni che avevano cercato di fare il bene, come mio nonno materno, modesto funzionario del Fascio che pagò con un mese di prigione (che gli procurò un’arteriosclerosi fatale) torti che non aveva commesso, pover’uomo che tutti chiamavamo, per la sua disarmata bontà “radiosa aurora”. O come le povere, care, innocenti sorelle Porro, massacrate ad Andria da una folla esaltata dalle parole di Di Vittorio.
Un Paese che vuole avere una dignità deve fare i conti con il proprio passato, identificarne senza timori luci e ombre e riconciliarsi con la verità. E poi deve superare le divisioni del passato e guardare avanti, capendo che i problemi e le sfide cui siamo confrontati sono altri, non sono più il conflitto tra rossi e neri, tra nazionalismi contrapposti, ma tra civiltà e barbarie. Questa è, tra le altre, la grande lezione dell’Europa unita. Il primo a capirlo fu De Gaulle, quando andò a stringere la mano ad Adenauer e mi colpisce sempre il fatto che alle celebrazioni dello sbarco in Normandia è invitata a partecipare da qualche tempo anche la Cancelliera tedesca. Il fatto è che tra fine aprile e primi di maggio di quel fatale 1945 un’epoca e un mondo sono finiti per sempre. Per sempre? Certo, non manca, in Italia e altrove, qualche dissennato che vorrebbe farli rivivere. Si tratta, per ora, di una minoranza e spetta alla grande maggioranza isolarli e impedire loro di nuocere, ritrovandosi unita al di là delle divisioni passate sui valori comuni di libertà, democrazia, diritti umani, sicurezza della Patria, solidarietà, sviluppo economico e sociale. E trovando l’intelligenza e la forza di dire, alto e forte: mai più.