La profezia di Mu’ammar

Se cado, l’alternativa sarà una jihad alle vostre porte, nel Mediterraneo. Migliaia di persone invaderanno l’Europa dalla Libia. Si tornerà ai tempi di Barbarossa, dei pirati, degli Ottomani che imponevano riscatti sulle navi …”. Questi, in sintesi, i contenuti di una famosa intervista rilasciata – quattro anni fa – dal Colonnello Mu’Ammar Gheddafi al giornalista francese Laurent Valdiguiè e pubblicata su “Journal du Dimanche”, qualche mese prima della fine del dittatore. Percepita, all’epoca, come monito al mondo per dimostrare quanto l’integrità della propria leadership rappresentasse una garanzia di sicurezza per il continente europeo – nel tentativo di salvarsi dal domino di crolli dei regimi in Nord-Africa provocati dall’onda delle cosiddette primavere arabe – la dichiarazione del colonnello è, oggi, reinterpretata da analisti e osservatori internazionali in chiave quasi profetica.

Quei 300 chilometri di braccio di mare, che dividono le coste libiche da quelle italiane di Lampedusa, sono diventati un percorso di morte e sofferenza, un triste teatro in cui va in scena il terzo più redditizio business criminale planetario, dopo il traffico di droga e di armi: il commercio di vite umane.

Con l’eliminazione di Gheddafi, proprio dalla Libia partono, con allarmante frequenza e condotti da scafisti senza scrupoli, barconi stipati fino all’inverosimile di esseri umani in fuga dalla guerra civile, dalla povertà e dall’assenza della benché minima prospettiva di futuro. Con l’implicito rischio, a carico dei paesi dell’Unione Europea, che tale modalità costituisca – grazie ai centri di accoglienza istituiti per far fronte all’emergenza umanitaria – un ulteriore veicolo d’infiltrazione da parte di jihadisti camuffati da migranti disperati. Cellule di Al Qaeda e califfati islamici vari godono, attualmente, di un corridoio geografico – quello di Egitto e Tunisia – caratterizzato dal vacuum politico. Hanno la strada spianata per entrare in Libia, sia dai confini orientali che occidentali, e utilizzarla come testa di ponte per la loro penetrazione nella nostra società civile. Non senza aver precedentemente creato, insieme alle organizzazioni che gestiscono lo schiavismo del terzo millennio, il caos nel Mediterraneo, sacrificando con disprezzo le vite di migliaia di profughi e stressando sino al black out  i sistemi italiani ed europei di soccorso in mare e assistenza ai sopravvissuti.

Quello instaurato da Gheddafi era sicuramente un regime odioso all’occhio occidentale, peraltro avversato non solo a causa delle radicali differenze nei rispettivi valori fondanti, ma anche perché titolare di una importante voce in tema di risorse energetiche: il petrolio della Libia, grande produttore in seno all’OPEC, è, infatti, universalmente classificato tra i migliori al mondo per pregio e qualità. E l’oro nero non cessa mai di suscitare avide golosità fra tutti gli attori internazionali del settore. La caduta del colonnello, “ufficialmente” per mano delle milizie islamiste che oggi occupano la Tripolitania, avrebbe agevolato l’inserimento di nuovi giocatori al tavolo dell’approvvigionamento energetico, ma non senza un pesante scotto da pagare. Lo si voglia o no, in particolari scacchieri geopolitici, spesso i regimi fungono da anestetico a problematiche latenti che, diversamente, esploderebbero con letale violenza. Il regime di Gheddafi ha creato stabilità, mettendo per lungo tempo una vasta area al riparo da interferenze, ingerenze, speculazioni affaristiche e sommosse in nome della religione; una volta abbattuto, il paese è piombato nella più totale confusione. Dove prima esisteva un unico interlocutore, ora si fronteggiano principalmente due governi: a est, quello riconosciuto dalla comunità internazionale; a ovest, quello islamista di Tripoli. A seguito di questa sanguinosa guerra interna, le coste libiche si sono trasformate, anche per la loro prossimità alla Sicilia, in trampolino di lancio per l’immigrazione clandestina di massa; un fenomeno drammatico per vastità e proporzioni, che l’Italia – va detto – si è trovata ad affrontare senza il debito supporto delle istituzioni europee. Dichiarata conclusa l’operazione militare varata sotto il governo Letta, nel 2013, denominata Mare Nostrum, con 150.000 vite salvate a fronte d’un costo di 114 milioni di euro per un anno di attività, oggi, a fare da argine all’emergenza, si schiera Triton, missione finanziata dalla neo costituita agenzia europea Frontex. Purtroppo, la tragedia degli oltre 900 migranti naufragati nel Canale di Sicilia dimostra come la gestione del problema sia stata trasmessa a un apparato sensibilmente depotenziato rispetto al precedente. I fondi destinati da Frontex a Triton sono meno di un terzo di quelli che lo Stato Italiano erogava a Mare Nostrum. Inoltre, va sottolineato come l’efficacia dei soccorsi prestati in passato da unità della Marina Militare non possa essere eguagliata dalle navi mercantili, cui è odiernamente demandato tale compito, in quanto il protocollo d’intervento di Triton prevede la sola tutela dei confini meridionali europei, senza un suo coinvolgimento diretto nell’assistenza ai clandestini.

La prima domanda, allora, è se esista, a livello europeo, una reale volontà politica, condivisa fortemente tra tutti i membri UE e non solo tra i paesi più esposti come Spagna, Italia o Grecia, di partecipare in modo compatto, fattivo e con mezzi adeguati alla risoluzione del problema. La seconda, se non sarebbe il caso, onde incidere col peso di una Unione e non di uno Stato isolato, di applicare una strategia coordinata di prevenzione e contrasto del fenomeno. Un’ipotesi che contempli, da una parte, l’impiego a monte di euro diplomazie e alte istituzioni comunitarie presso i governi, legittimi o transitori che siano, dei paesi d’origine di trafficanti e profughi, con l’obiettivo di siglare accordi di blocco in loco di natanti e flussi migratori, stringendo – laddove possibile – anche reciproche collaborazioni tra polizie e servizi d’intelligence; dall’altra, il pattugliamento delle acque territoriali e l’eventuale soccorso in caso di naufragio, come seconda linea d’intervento.

Proprio per trovare risposte comuni ai quesiti dettati dall’incalzante emergenza umanitaria, il governo italiano ha chiesto e ottenuto un Consiglio Europeo straordinario. Oltre alla proposta di rafforzamento di Triton, la possibilità di neutralizzare i barconi nei porti di partenza con azioni militari, ipotesi subordinata a mandato ONU e ad accordo con la Libia, in assenza del quale dette operazioni si configurerebbero come atti di guerra. Al di là delle decisioni prese ieri nel vertice, resta comunque il dato confortante dell’intento dei paesi dell’Unione di condividere responsabilità e sforzi in quella che ormai si delinea come una missione dal profondo significato civile, umanitario e politico.

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