Gli inglesi e l’Europa
La conferma di David Cameron alla guida del governo rende praticamente certo che entro il 2017 si terrà in Gran Bretagna il referendum per la permanenza nell’Unione Europea. Nulla di peccaminoso. L’UE è un insieme di Paesi liberi, uniti per loro libera scelta e non per un’imposizione superiore. Non è un impero da cui per separarsi occorra una rivolta. Il ritiro di un paese membro è previsto dall’art. 50 del Trattato sull’Unione e sono anche indicate in dettaglio, nell’art. 218 (ter) le procedure da seguire, a cominciare dalla notifica del paese uscente al Consiglio Europeo, a seguire con i negoziati per un accordo che definisca i termini del ritiro, accordo da raggiungere nel giro di due anni.
In un recente articolo, sir Alan Dashwood, eminente giurista inglese e in passato Direttore Generale degli Affari Culturali dell’Unione a Bruxelles, ha ricordato con precisione e pragmatismo tutti inglesi le infinite questioni da risolvere in caso di ritiro, la loro complessità, la necessità di trovare, dalle due parti, punti di incontro sui tantissimi nodi da affrontare, a rischio altrimenti di creare una situazione giuridicamente del tutto confusa (solo a titolo di esempio, la GB continuerebbe a partecipare alla Politica Agricola Comune e ai suoi vantaggi? Che succederebbe della partecipazione inglese all’Accordo di Libero Scambio con gli Stati Uniti in via di negoziato? I suoi cittadini conserverebbero la cittadinanza europea? Le sedi europee nel Regno Unito comunque dovrebbero essere trasferite altrove e il personale inglese a tutti i livelli del Consiglio, Commissione, Tribunale e Parlamento dovrebbe essere mandato a casa. Ma ci sono tantissimi altri casi complicati). Il prof. Dashwood ha indicato le tre possibilità che si aprirebbero per la Gran Bretagna in caso di uscita: entrare nell’EFTA, e godere così dei vantaggi dell’accordo di libero scambio tra questa associazione di paesi e la UE; concludere un accordo di associazione sul modello di altri paesi europei o una serie di accordi bilaterali sul tipo di quelli che regolano per esempio i rapporti tra UE e Svizzera. In ogni caso, occorrerebbe dalle due parti molta pazienza e molta voglia di compromesso. In tutte queste ipotesi, avverte l’eminente giurista, il Regno Unito dovrebbe adattarsi alle regole europee senza più poter concorrere a crearle. Il titolo dell’articolo di Sir Alan è significativo: “End of a bad marriage, and a messy divorce” (“ Fine di una cattivo matrimonio e un divorzio pasticciato”).
L’Autore, che è un europeista fervente, non si limita e indicare i nodi quasi insolubili – i “pasticci” – di un divorzio dal punto di vista legale. Sostiene anche che uscire dall’Unione costituirebbe per la Gran Bretagna una grande perdita, ed elenca i motivi principali per cui l’UE rappresenta una conquista storica essenziale anche per gli inglesi. Sono quelli che ogni persona di buon senso conosce: l’integrazione ha permesso di superare le guerre fratricide che per secoli hanno insanguinato l’Europa; costituisce un potente fattore di sviluppo economico; unendosi, gli europei hanno riacquistato un enorme peso economico, finanziario e commerciale rispetto ad altri giganti come Stati Uniti e Cina; l’Unione è garanzia di democrazia, libertà e diritti umani; permette la libera circolazione dei suoi cittadini e impulsa una crescente “cross-fertilizacion” culturale e scientifica. Tutto vero, ovviamente, ma il fatto è che gli inglesi – al di fuori di un’elite aperta e illuminata – in generale sentono poco questi vantaggi e risentono molto i limiti che l’appartenenza a un corpo comune inevitabilmente comporta. La GB è un’isola, in tutti i sensi della parola: guarda a Ovest, verso gli Stati Uniti, è oggi la seconda economia europea, è un grande centro finanziario, ha ancora alcuni attributi da Grande Potenza e pensa di avere negli Stati Uniti un amico e alleato vitale la cui alleanza viscerale conferisce alla GB un peso speciale (in parte a torto: vari Presidenti USA, compreso Obama, hanno reso chiaro che l’importanza dell’Inghilterra ai loro occhi dipende anche dalla sua influenza in Europa e dal ruolo di raccordo con l’America che essa le permette di svolgere, specie in politica estera e di sicurezza; fuori dell’Unione, il peso britannico sarebbe minore).
Ma soprattutto, gli inglesi sono ancora in buona parte sciovinisti, attaccati alle loro tradizioni e a un modo di vita che temono in pericolo; il loro concetto dei “continentali” (che siano francesi, tedeschi, o latini) è sempre stato, e resta, critico e alle volte sprezzante. Cultura a parte, c’è poco o niente che apprezzino in noi e che li faccia sentire a noi vicini. Per questo, i rapporti tra Regno Unito ed Europa sono sempore stati problematici e talvolta conflittuali. Dashwood pare non credere che gli inglesi alla fine sceglieranno di uscire dall’UE, facendo affidamento, penso, sul loro pragmatismo. Ritiene che questa non sia la vera intenzione di Cameron. Crede che questi vorrà ora avviare un negoziato con gli altri partner per ottenere una serie di modifiche degli obblighi della Gran Bretagna, per esempio in materia di leggi sul lavoro, welfare, libera circolazione. Ottenere , insomma, una serie di “eccezioni inglesi” e poi dire all’elettorato:in qyue¿ueste condizioni conviene restare. Questo tentativo riuscì a Wilson negli anni Settanta e poi John Mayor ai tempi dell’euro (l’Italia e – se posso citarmi – io stesso come responsabile degli Affari europei alla Farnesina, appoggiammo la richiesta inglese per salvare il Trattato di Maastricht e permettere all’Inghilterra di rimanere in Europa; avevamo contro una corrente di “talibani europei”, da Emilio Colombo a Bruno Bottai e a Raniero Vanni, ma il Premier Amato accolse la mia tesi). Riuscirà anche questa volta? Dipenderà dalla buona volontà dei partner e del Parlamento europeo, se questi si adatteranno all’idea che la partecipazione di un Paese può essere – come in parte già è – a intensità minore. Prevedendo un margine di tempo abbastanza largo, Cameron ha mostrato una certa prudenza: probabilmente sconta gli effetti positivi della ripresa in atto nell’Eurozona e del maggiore impegno economico-sociale della Commissione di Juncker.
Tutto, però, è possibile, e a quanto so Bruxelles si prepara per l’eventualità che la Gran Bretagna decida di ritirarsi (il Presidente della Commissione, Juncker, vi ha fatto di recente un cenno discreto ma chiaro).
Non sarebbe – lo dico da europeista che ha vissuto per anni dentro le istituzioni di Bruxelles – una tragedia (come l’ha definita il Ministro Gentiloni). Dato il peso economico, politico e militare della GB, l’UE ne sarebbe certamente impoverita, ma non sarebbe una perdita irreparabile. L’Unione appartiene a chi ci crede come a un ideale da realizzare passo a passo, non a chi ci sta a malincuore e per semplice convenienza, facendo sistematicamente la fronda dall’interno. Guardiamo quindi a questa eventualità con serenità e non corriamo appresso agli elettori inglesi con preghiere e sollecitazioni, perché sarebbe poco dignitoso e probabilmente controproducente. Se il Regno Unito se ne va, gli altri dimostrino volontà e capacità di andare avanti anche meglio.
Un’ultima considerazione, ovvia. La GB ha molto da perdere dall’uscita dall’UE, ma resta comunque un paese strutturalmente forte. Per l’Italia, ben altrimenti fragile, uscire dall’Europa come sognano alcuni folli, non sarebbe una semplice perdita: sarebbe un vero disastro.
Un Commento
Il problema e` che l`Europa non e` affatto un nucleo democratico di paesi liberi, ma bensi una struttura antidemocratica a forma dittatoriale. Gli inglesi lo sanno, almeno quelli che vogliono uscirne.