Cameron-bis e il “sistema cultura” inglese
Londra – Dal 7 maggio, è iniziato il secondo mandato del Primo Ministro David Cameron. Altri cinque anni di permanenza per il conservatore. Il sistema culturale e museale britannico è a rischio. Il settore “creativo” e culturale non sembra essere la prima preoccupazione per i Tories, appunto i Conservatori, e questa non è una novità, almeno a partire dal programma elettorale del 2010. La pressione derivante dal deficit divampa; eppure perché toccare un ambito così produttivo nel Regno Unito?
Il debito pubblico, dopo che il UK è sceso dalla proprio livello di credito AAA, va bilanciato e, dunque, ridotto. Ma da dove iniziare? Dove mettere le mani? I tagli indiscriminati sono sempre da evitare e non costituiscono certo la soluzione. Il settore creativo commerciale cresce tre volte tanto il resto dell’economia britannica. Le eccellenze non sono un’eccezione. Nonostante i tagli, le amministrazioni investono ingentemente, contribuendo quasi alla metà dei finanziamenti le arti ricevono.
Nel loro manifesto, i Conservatori promettono un risparmio dipartimentale di 12 milioni di sterline, riferendosi alla spesa culturale, ridotta del 36% dal 2010, che sarà soggetta in modo equivalente. Pure i fondi devoluti alle autorità locali verranno colpiti. La spinta filantropica borghese dei Tories non significherà davvero più nulla.
Nel Regno Unito, le università e le arti sono ottimali per la crescita, sia per il valore in territorio nazionale che come prodotto per l’esportazione. Eppure, i Conservativi ostruiscono entrambi i settori e, quindi, la competitività è destinata a perderci. Del resto, coloro che non possono contare sul sostegno di genitori abbienti non sono mai stati tanto svantaggiati quanto ora a intraprendere uno corso di laurea e una carriera nella arti, che siano teatro, musica, arti visive, danza o altro. Il reddito annuale è di media minore a 20 mila sterline.
Le riforme tatcheriane a favore della liberalizzazione culturale sembrano rischiare l’annientamento. La National Gallery è in stato d’allerta da febbraio scorso. Il Direttore Nicholas Penny, pur di accordare l’esistenza del Museo, ha proposto un rinnovamento che ha incontrato rifiuto da parte di gran parte del personale, chi ne verrà interessato, ossia un terzo del totale, 200 su 600 lavoratori.
L’ipotesi è quella di ricorrere a una compagnia privata per i servizi dedicati ai visitatori. Si tratterebbe di incrementare la sicurezza, per l’estensione dell’orario d’apertura serale di venerdì, nel weekend e durante eventi speciali, aumentando la flessibilità giornaliera. Sembra, tuttavia, che la negoziazione della flessibilità dei contratti sia particolarmente limitata. Da ciò, è derivato uno sciopero di 5 giorni che ha influito non poco sul funzionamento della Struttura: sono stati costretti a chiudere alcune sale, quelle che ospitano la maggior parte dei dipinti ad opera dei maestri britannici, e a sospendere le attività educative.
Il mandato di Penny presto scadrà, ma le decisioni prese ora permarranno. Sotto Penny, il Museo sta vivendo il periodo di maggior successo, con 6 milioni di visitatori annui e due Tiziani acquisiti. Nel momento in cui i fondi scarseggiano, l’ammodernamento è essenziale per la sopravvivenza. La National Gallery è l’ultimo dei poli espositivi, dopo il British Museum, l’Imperial War Museum, il Natural History Museum, il Science Museum, e il Victoria & Albert Museum, a ricorrere a una gestione mista del servizio visitatori.