Rohingyas, i boat people d’Oriente
Migliaia di boat people Rohingyas, minoranza musulmana perseguitata in Birmania, sono alla deriva in mare. I paesi della regione si rimpallano la responsabilità, in quella che appare una sempre più tragica partita di pingpong. Sembrerebbe che dopo le parole di Papa Francesco, che ha evocato la loro tragedia paragonandola a quella dei Cristiani e degli Yazidi in Irak, la Malesia e l’Indonesia abbiano fatto un passo in dietro nella loro drastica decisione di respingere le navi cariche di miseria e disperazione, ma la sorte di questo popolo non sembra nata sotto una buona stella.
Quello che era cominciato con l’esumazione, lo scorso primo Maggio, di una trentina di corpi di migranti arrivati dalla Birmania e dal Bangladesh, nella giungla tailandese nei pressi della frontiera malese, è diventato nel giro di poche settimane una crisi umanitaria regionale maggiore, forse la più grave tra quelle vissute dal Sud Est asiatico dopo l’esodo dei “boat people” vietnamiti che fuggivano dal comunismo negli anni ’70. Lo shock causato in Thailandia dalla scoperta dei cadaveri e dei cinque campi gestiti dai trafficanti di esseri umani nel sud del Paese, ha spinto la giunta al potere a Bangkok a lanciare una grande operazione di “pulizia”. Una cinquantina di ufficiali di polizia e di amministratori locali coinvolti nella rete del traffico sono stati arrestati, e la maggioranza dei trafficanti stessi si è come volatilizzata. Questa chiusura improvvisa e brusca della filiera thailandese “ha portato alla distruzione del modello economico dei trafficanti di esseri umani”, afferma Jeff Labovitz capo missione in Thailandia per l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni: i campi in Thailandia erano considerati come una sorta di “vestibolo d’ingresso” prima che i trafficanti permettessero agli immigranti di raggiungere la loro destinazione in Malesia, giusto il tempo di metterli sotto pressione per ottenere dalle famiglie un riscatto. Chiuso l’accesso alle coste thailandesi, i trafficanti hanno abbandonato le navi sovraccariche di migranti in mezzo al Mare di Andaman o nello stretto di Malacca. “Ci sono almeno 8000 rohingyas birmani e del Bangladesh prigionieri del mare aperto, alla deriva da settimane, se non mesi”. Sono veri e propri “campi offshore” fa presente Chris Lewa, direttrice della ONG Arakan Project che studia la questione dei Rohingyas da una decina di anni. Il Governo di Naypydaw rifiuta in effetti di riconoscere la cittadinanza birmana ai Rohingyas, anche quando la loro famiglia è vissuta in Birmania da molte generazioni. I Rohingyas, parcheggiati in campi dal 2012, sono oggetto di persecuzioni da parte dei buddisti locali e non hanno in nessun modo la possibilità di guadagnarsi da vivere. Sono delle vere e proprie non persone. La Thailandia, Paese di transito dei migranti, si trova incastrata tra il Paese di origine dei migranti – Birmania e Bangladesh – che fanno di tutto per ignorare l’esistenza di questo dramma e il principale Paese di destinazione. “I Paesi delle regione devono smetterla con questo gioco di pingpong con vite umane”, ha detto con indignazione Philip Robertson membro di Human Rights Watch. “Più i migranti rimangono in mare, più la loro salute si degrada. Presto saranno tutti scheletri”, precisa preoccupato Labovitz. Diverse imbarcazioni “fantasma” sono state già allontanate più volte dai vari Paesi, e localizzarle è come cercare un ago in un pagliaio.
La crisi dei migranti alla deriva provoca grande discordia nella regione. Il vice ministro dell’Interno malese, Wan Junaidi Tuanku Jaafar, ha denunciato il Governo birmano per aver causato l’esodo dei Rohingyas e la Birmania minaccia di boicottare l’importante riunione prevista a Bangkok il prossimo 29 Maggio prendendo alla sprovvista la Thailandia che conta molto sulla concertazione regionale per risolvere la questione sempre più pressante delle migliaia di Rohingyas e Bangladesi. La Thailandia tiene molto a preservare le sue relazioni con il vicino birmano, anche se è chiaro che la fonte del problema arriva dalle persecuzioni delle quali sono vittima i Rhoingyas è in Birmania. Non avendo altre soluzioni, i dirigenti thailandesi hanno dunque chiesto alle organizzazioni internazionali di aiutarli ad affrontare l’afflusso dei migranti. Va detto che questa frenesia da parte della giunta nel combattere il traffico di esseri umani sarebbe motivata anche dalla paura di sanzioni economiche. Lo scorso anno, il Dipartimento degli Stati Uniti ha declassato la Thailandia al peggior posto –livello 3 – nel suo Rapporto 2014 sul traffico di uomini, evocando la sua incapacità di lottare contro la tratta umana. Il mese scorso, dopo le critiche di Washington, è stato il turno dell’Unione Europea che ha minacciato di boicottare le importazioni dei prodotti del mare provenienti dalla Thailandia. Un settore economico importante per il Regno, ma che sarebbe anch’esso coinvolto nella pratica di una sorta di schiavismo dei lavoratori migranti clandestini sui suoi pescherecci. Sono ormai 30 anni che i rifugiati della Birmania si recano in Thailandia dove sono ormai 150mila, ammassati in nove campi relegati lungo la frontiera. La Thailandia, così come la Malesia, altra “terra promessa” agli occhi dei Rhoingyas, non sono firmatarie della Convenzione ONU che conferisce uno status e una protezione ai rifugiati. Le testimonianze di abusi su questa gente stipata in questi recinti diventano sempre più numerose. In Malesia i richiedenti asilo e i rifugiati vengono trattati come migranti clandestini, quindi con poche possibilità di rifarsi una vita. Queste navi alla deriva, manovrate da migranti sfiniti e vittime di malattie e malnutrizione, ultimamente venivano sistematicamente respinte appena si avvicinano troppo anche alle coste malesi e indonesiane, solitamente popolazioni più “tolleranti”. La bella solidarietà sud asiatica, a sei mesi dalla formazione di una Comunità economica e politica delle nazioni del Sudest asiatico, sembrava rapidamente andata in frantumi. Dopo una serie di colloqui in Malesia, i Ministri degli Esteri malese e indonesiano hanno finalmente annunciato di offrire in via provvisoria rifugio ai naufragi e non respingere più le navi alla deriva lontano dalle loro coste, a patto che la comunità internazionale si impegni a ri-localizzare o rimpatriare queste persone entro l’anno . I rifugiati in Indonesia vivono in centri di ritenzione amministrativa e rari sono coloro che riescono ad ottenere lo status di rifugiato secondo i criteri delle Nazioni Unite. Ci vorrà grandissimo impegno da parte di tutti per riportare ordine. Prevarrà la solidarietà o l’egoismo?
Accusata di reprimere la sua minoranza Rhoingya, la Birmania sostiene che la colpa della cattiva gestione di questo esodo sia di tutta la regione. Lunedì 18 Maggio le autorità hanno dichiarato “capire la preoccupazione internazionale” riguardante la sorte dei boat people in Asia, senza però pronunciare la parola “Rhoingyas”, tabu per i birmani. Il silenzio assordante d’Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la Pace, non fa che aggiungere altro disagio al disagio generale che coinvolge questa minoranza (per le NU la più perseguitata al mondo) che la Birmania non riconosce. Il destino tragico di questi esseri umani fa da eco al dramma dei migranti che tentano di raggiungere l’Unione Europea attraverso il Mediterraneo. Nel Sudest asiatico questo esodo dura da decenni, ma solo da qualche giorno ha preso una svolta particolarmente catastrofica trovandosi le filiere clandestine completamente allo sbando per la nuova politica repressiva della Thailandia. Per trovare una soluzione alla crisi, i Paesi della regione dovranno tentare di responsabilizzare rapidamente la Birmania, che rifiuta tuttavia di essere additata come “fonte” del problema. Per questo le autorità non hanno ancora confermato la loro partecipazione al grande summit regionale del 29 Maggio e cercano di trincerarsi dietro al principio di non ingerenza sul quale è costruita l’Asean (Associazione della Nazioni del Sudest asiatico), unica istituzione regionale suscettibile di, eventualmente, arrivare ad una soluzione. Anche l’apertura delle Filippine (su pressione USA per risolvere la questione in una regione a loro molto “cara” ?) ad accogliere un buon numero di migranti lascia intravedere una spiraglio nella soluzione di questa crisi umanitaria che va avanti da troppo tempo. Sarà un incentivo sufficiente?