UE, no al Reverse charge sull’IVA
Cattive notizie per l’Italia in arrivo da Bruxelles. È notizia di questi giorni la bocciatura, da parte della Commissione europea, della proposta di deroga per introdurre il reverse charge nelle transazioni della grande distribuzione. La decisione, già notificata al Consiglio degli stati membri, deriva dal fatto che tale concessione sarebbe in contrasto con l’articolo 395 della direttiva sull’Iva.
Il reverse charge, o inversione contabile, è un particolare sistema di applicazione dell’Iva secondo cui negli scambi commerciali sia il cliente a versarla, e non il venditore. Già attivo per il settore edile, dell’energia, dei servizi di pulizia, demolizione e installazione di impianti, il reverse charge avrebbe dovuto essere esteso alla grande distribuzione (ipermercati e discount alimentari) secondo la legge di stabilità del 2015 del governo italiano. E così il parere negativo della Commissione, se confermato dal Consiglio UE, comporterà all’Italia un mancato introito di ben 728 milioni di euro. In tal caso, sembra che da Palazzo Chigi sia in previsione un aumento delle accise sui carburanti, che rappresentano una nuova batosta per le tasche degli italiani.
D’altro canto, il mondo delle imprese ha espresso soddisfazione per tale notizia, soprattutto dopo il ricorso che Confindustria aveva presentato a Bruxelles contro il reverse charge subito dopo l’approvazione della legge di stabilità. Si tratta dunque di un tema che colpisce varie categorie di soggetti, ma soprattutto pone in risalto l’aspetto più concreto nei rapporti tra Italia e Unione europea: le variazioni dell’Iva hanno di certo un enorme impatto sul gettito fiscale nazionale, ma forse non tutti sanno che la sua gestione è giuridicamente di competenza europea.
Vanessa Mock, portavoce della Commissione europea per i servizi finanziari, riporta l’opinione congiunta dell’esecutivo UE, secondo cui «non ci sono prove sufficienti che la misura richiesta contribuirebbe a contrastare le frodi fiscali. Riteniamo piuttosto che tale azione implicherebbe alti rischi di frode, a svantaggio delle vendite al dettaglio e di altri stati membri».
Secondo le analisi, il reverse charge applicato alla grande distribuzione, si baserebbe sul fatto che la propensione all’occultamento dei ricavi tra i suoi fornitori è maggiore rispetto a quella della grande distribuzione stessa. Da un punto di vista europeo, invece, il potere dell’Iva risiede nella possibilità di introdurre disincentivi alle evasioni tramite il versamento dell’imposta non soltanto allo stadio finale, ma lungo tutta la catena di creazione del valore aggiunto. In tal modo si potrà contrastare la convergenza dell’interesse del venditore al dettaglio e del consumatore a occultare la transazione. Per questo motivo, a Bruxelles ogni spostamento dell’obbligo di versamento dell’Iva verso la fine del rapporto commerciale (al consumatore) viene considerato sospetto.
La gestione dell’imposta sul valore aggiunto è dunque un’altra tematica scottante, contesa tra l’Unione europea e il nostro paese, che denota una evidente difficoltà di comunicazione tra poteri politici con competenze spesso confliggenti. A farne le spese sono, quasi sempre, i cittadini italiani… o europei?