Cronache dai Palazzi

Si raccolgono i frutti delle Regionali, nonostante il premier Renzi sia convinto che non si sia trattato di un test sul governo. Il presidente dei Popolari, Mario Mauro, dichiara che alla base della decisione di passare all’opposizione c’è un chiaro dissenso dall’azione dell’esecutivo: “riforme non condivise, condotte in modo improvvisato e approssimativo, con un’improvvida esaltazione del colore monocolore dell’esecutivo”. Mario Mauro sottolinea inoltre che “c’è una gestione politica che sta tenendo in stallo l’Italia, la sua economia e il suo bisogno di crescita”.

Per Renzi si tratta solo di propaganda. “Molto rumore per nulla”, afferma invece il presidente dei senatori dem Luigi Zanda, che aggiunge: “La maggioranza al Senato non cambia. E si vedrà già la prossima settimana quando saranno calendarizzati provvedimenti importanti, come il codice degli appalti e la legge sull’omicidio stradale”. Di fatto la geografia del potere è sottoposta a delle scosse di assestamento, soprattutto a Palazzo Madama.

Al di là delle polemiche l’emorragia dei popolari è un indicatore, anche se i democrat ironizzano e parlano di una “non notizia”, sottolineando che Mauro e Di Maggio votano con l’opposizione già da diverse settimane, come nel caso dell’ultima votazione di fiducia sul decreto antiterrorismo. A dare filo da torcere al governo non è comunque solo l’asse dei popolari ma la stessa minoranza dem che attende la maggioranza al varco per quanto riguarda la “Buona scuola” – il cui disegno di legge è fermo al Senato –  e annuncia battaglia anche per la riforma del Senato  e del Titolo V della Carta il cui testo, dopo l’approvazione da parte di Montecitorio il 20 marzo, è tornato il commissione Affari costituzionali al Senato per il terzo sì. L’obiettivo dell’esecutivo è chiudere la partita prima della pausa estiva.

Il governo Renzi dovrà poi fronteggiare le tensioni nella maggioranza anche a proposito di unioni civili che in commissione Giustizia contano ben 4018 emendamenti. Sull’orlo della contestazione il partito di Alfano, ma anche qui  Renzi conta di smarcare l’alleato di governo e procedere all’approvazione tra luglio e settembre. Infine la riforma della prescrizione, che potrebbe rappresentare un ennesimo terreno di scontro e sulla quale sta lavorando la commissione Giustizia di Palazzo Madama. Gli emendamenti si dovranno esaurire entro il 17 giugno. Il Pd è inoltre imbrigliato dall’affaire De Luca  che Palazzo Chigi non ha ancora spiegato come risolverà, rimandando la questione alla Corte costituzionale che il 21 ottobre si pronuncerà sulla legge Severino. Il ministro dell’interno Angelino Alfano (Ap) però avverte: “La legge sarà applicata dal primo all’ultimo rigo e non cambieremo neppure la prassi, come ho già detto pure al Pd”.

Le tensioni in casa dem non si esauriscono comunque risolvendo il caso De Luca e i malumori sono così palpabili che un ministro filorenziano come Graziano Delrio invita il Pd a “uscire compatto” dallo scontro che ha avvelenato i democratici per settimane. Il rischio è una scissione sul modello di Forza Italia che depotenzierebbe la leadership del premier-segretario, nonostante la sua ferma volontà di governare Largo del Nazareno a piene mani e senza attenuanti. Il 5-2 delle Regionali, in effetti, sembra aver incoraggiato la leadership a senso unico del leader dem, portato a decidere schivando le mediazioni, e soprattutto prendendo le distanze da una “sinistra tafazzista” come quella che provocato il tonfo di Raffaella Paita in Liguria. Per Renzi esisterebbe un “bertinottismo 2.0 capace di far perdere il partito e di far vincere la destra”. In pratica una “sinistra masochista” che divisa fa perdere voti al Pd e nel contempo “resuscita” Berlusconi.

All’orizzonte si intravede in effetti una lieve ripresa – per lo più morale – della destra berlusconiana, ma anche i Cinque Stelle e la Lega hanno incassato il loro bottino, tantoché Salvini parla già di primarie, non contento di lasciare il centrodestra al leader di Forza Italia. Oltrepassare la linea del Tevere non è però un’impresa facile per il Carroccio e, parlando di “Italie diverse”, Salvini dimostra di esserne consapevole. In sostanza “la Lega d’Italia non esiste”. Il leader leghista rimarca comunque la sua distanza dai partiti tradizionali di centrodestra e sottolinea che “quando si voterà per le Politiche gli schieramenti non saranno semplici somme” di sigle.

L’elaborazione del voto di domenica 31 maggio si rivela in definitiva piuttosto contorta. I diversi leader difendono ognuno il proprio fronte e sembrano prepararsi metaforicamente già alle prossime elezioni Politiche. In questo contesto da resa dei conti la direzione dem di lunedì 8 giugno, al rientro del premier dal G7 in Baviera, si preannuncia tutt’altro che pacifica, anche se Renzi sembra essere pronto a ricucire con la minoranza del suo partito ostile al governo. Il premier-segretario ribadisce comunque che “con quelli che non ci credono” c’è poco da discutere e da fare.

Il presidente del Consiglio in pratica non concede spazio sulle riforme nemmeno ai compagni di partito, in particolar modo a quelli della vecchia “Ditta” – i ribelli guidati da Bersani, D’Alema e Bindi – che secondo  Renzi le studiano tutte pur di affossare l’azione del suo governo. In quest’ottica il successo in Campania assumerebbe una valenza diversa: “La Bindi ha fatto di tutto per farci perdere – mormorano i renziani dal Nazareno – ha usato l’Antimafia per regolare i conti, ma ha perso la faccia”.

Rispetto alle ultime emorragie, infine, i seguaci del renzismo sono convinti che la maggioranza reggerà anche in Senato – “abbiamo 30 voti di vantaggio e non cambierà nulla” – e sbandierano un discreto 37% di consensi. Il problema però non è semplicemente numerico, ma riguarda l’ampiezza del consenso e la condivisione sulla base della quale si fanno le riforme e in nome delle quali si tiene in ostaggio il Paese. Un Paese vittima della “tirannide della maggioranza” che strumentalizza la democrazia e incoraggia il “pensiero unico”.

Rai, buona scuola, legge sui partiti, Titolo V sono solo alcune delle riforme per cui si combatteranno dure battaglie nei due rami del Parlamento trasformato, molto spesso, in un votificio e in cui la rappresentanza assume un significato puramente aritmetico. In definitiva la supremazia dei partiti rischia di delegittimare la politica, e quest’ultima trasmettendo all’esterno le proprie diversità si allontana sempre più dal Paese reale e quindi dai cittadini.

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