A cuore freddo (Film, 1971)

Riccardo Ghione (1922-2003) debutta negli anni Cinquanta come organizzatore della rivista per immagini Documento mensile, che annovera tra le sue fila artisti del calibro di Cesare Zavattini e Marco Ferreri. Ghione è un seguace della poetica zavattiniana e insieme al grande sceneggiatore realizza un vero e proprio film manifesto come Amore in città. Attivo come sceneggiatore, sia in passato (Fontana di Trevi, Un giorno in Europa, Fiesta brava…) che in tempi recenti (La bonne, Scandalosa Gilda, Fotografando Patrizia…), non lavora molto come regista, realizzando solo tre film tra il 1968 e il 1974: La rivoluzione sessuale (1968), A cuore freddo (1971) e un horror bizzarro come Il prato macchiato di rosso (1972).

A cuore freddo è un piccolo gioiello, in parte ispirato da identiche suggestioni del contemporaneo Arancia meccanica (1971) di Stanley Kubrick, ma originale per quel che concerne la parte politico – sociale, il messaggio antiborghese e il rifiuto della società dei consumi. Un film realizzato con poche lire ma interpretato da due professionisti come Enrico Maria Salerno e Rada Rassimov che grazie a una recitazione intensa e spesso sopra le righe conferiscono spessore ai personaggi. Una grande colonna sonora composta da Stelvio Cipriani contribuisce al fascino della pellicola e accompagna lo spettatore in un crescendo di tensione verso un truce quanto inaspettato finale. La storia racconta il grande amore di un ricco borghese (Salerno) per una ragazza hippie (Rassimov), salvata da un destino infausto. Purtroppo l’amore non è corrisposto, la donna accetta di sposarsi solo per i soldi, tradisce il marito con un pittore squattrinato, ma non vuole lasciarlo per timore di perdere il benessere economico. Il film si svolge in una sola giornata – a parte gli intensi flashback che narrano il passato – ed è una sorta di thriller sociale on the road. Marito e moglie compiono un viaggio in auto per recarsi dalla madre di lui, vengono inseguiti da alcuni hippie che picchiano l’uomo e violentano la donna. I figli dei fiori non toccano i soldi che l’uomo porta con sé, perché il denaro non fa parte dei loro interessi. La moglie approfitta del fattaccio per uccidere il marito incolpando gli aggressori, ereditando così la sua fortuna. Non la fa franca. Gli hippie comprendono il gioco sporco della donna e anche il pittore si rifiuta di proteggerla perché è il primo a non aver mai dato importanza al denaro.

Il film ha molti pregi. Tutto il prologo sembra ambientato in una vera comune, la musica a tema accompagna immagini che presentano la differenza tra la vita del ricco borghese e quella dei figli dei fiori. Ottima la fotografia di una Roma anni Settanta, tra utilitarie e strade poco trafficate, azzeccate le sequenze marine e le riprese lungo strade sterrate di campagna. I flashback onirici sono suadenti e poetici, consentono di alternare ricordi diversi, fanno capire il grande amore dell’uomo per una donna sensibile soltanto al fascino del denaro. La ragazza ricorda un passato di privazioni e stenti, un’esistenza senza fissa dimora, da vera e propria barbona. L’uomo ripensa ai baci appassionati, ai primi tempi, rivede le corse nei prati, un casolare di contadini dove nascondersi per fare l’amore. Adesso tutto è finito, lei è fredda, glaciale, minaccia persino di ucciderlo e non soltanto per gioco. L’amante della donna è un pittore che dipinge biglietti di banca e monete che si liquefanno, una sorta di De Chirico anticapitalista, pensato per concretizzare il messaggio contro il denaro e la società dei consumi. “I soldi dei capitalisti sono lo sterco del diavolo”, afferma il pittore. L’amore tra moglie e marito è al capolinea, lei lo sfida di continuo, mostra le gambe a un camionista, provoca la reazione degli altri, lo tradisce, lo porta a litigare ogni giorno, torturandolo sempre di più.

Molto truce e realistica la parte in cui gli hippie aggrediscono la coppia nella città fantasma di Galeria, a Montecroci. Sequenze violente e perverse stile Arancia meccanica, che anticipano il disturbante finale di Avere vent’anni (1978) di Fernando di Leo, tra violenza carnale, insulti e percosse. Ma il personaggio negativo a tutto tondo resta la moglie che uccide per denaro un uomo colpevole soltanto di averla amata. Un precursore nobile della pellicola di Ghione può essere La fontana della vergine di Ingmar Bergman, pure se qui manca tutta la parte della vendetta e l’aggressione è ai danni di una coppia. Il finale vede la disperazione della ragazza, rifiutata persino dall’amante, pentita del macabro gesto, mentre scorrono le note di Lyonesse composta da Stelvio Cipriani e cantata da Giuliana Vanci.

Location affascinanti, recitazione perfetta, clima teso e inquietante, alternarsi di piani temporali senza soluzione di continuità. Le ambizioni sono grandi, i mezzi limitati, ma resta un film da riscoprire.

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Regia: Riccardo Ghione. Soggetto: Riccardo Ghione, Alfredo Mirabile. Sceneggiatura: Riccardo Ghione, Alfredo Mirabile, Gianfranco Clerici. Fotografia: Enzo Serafin (Eastmancolor, Superscope). Montaggio: Fernando Cerchio. Scenografia: Giuseppe Bassan. Costumi: Paola Nardi. Fonico: Massimo Iaboni. Aiuto Regista: Edgardo Viola. Arredatore: Giacomo Calò Carducci. Operatore: Nino Celeste. Musica: Stelvio Cipriani. Edizioni Musicali: Cam, Nazionalmusic. Canzone: Lyonesse (Cipriani – Shepstone, canta Giuliana Valci) Teatri di Posa: Incir/ De Paolis. Doppiaggio: S.A.S.. Organizzatore Generale: Alfredo Mirabile. Colore: Telecolor. Produzione: Filmes Cinematografica (Roma). Interpreti: Enrico Maria Salerno, Rada Rassimov, Colette Descombes, Luciano Bartoli, Gerard Falconetti, Luciano Telli, Giorgio Dolfin, Bruno Pradal.

©Futuro Europa®

[NdR – L’autore dell’articolo ha un suo blog “La Cineteca di Caino”]

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2 Comments

  • Il mio amico Gordiano Lupi ama talmente tanto Ingmar Bergman che lo “vede” anche dove non c’è. 😉

    • La fontana della Vergine ha “inventato” – suo malgrado e con ben altre intenzioni – il cinema stupro e vendetta. Certo, Bergman è ben altra cosa…

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