L’Iran torna sulla scena internazionale, accordo storico e tante incognite
Dopo 12 anni di crisi, la risoluzione del conflitto sul nucleare iraniano sigla l’inizio della riabilitazione della Repubblica Islamica agli occhi del Mondo.
Ci sono voluti 12 anni di fitti colloqui, due accordi intermedi, una decina di scadenze rimandate e innumerevoli minacce di lasciare il tavolo dei negoziati, ma ci sono riusciti. Dopo 17 giorni di incontri senza fine (uno in meno di quelli serviti per arrivare al complicato accordo di Daytona che nel 1995 ha messo fine alla guerra di Bosnia-Erzegovina), i negoziatori dell’Iran e delle grandi potenze (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Inghilterra e Germania) sono finalmente riusciti a strappare un compromesso insperato sullo spinoso dossier sul nucleare iraniano. Hanno messo fine a una crisi che avvelena le relazioni internazionali da più di un decennio, da quando nel 2002 è stata scoperta l’esistenza in Iran del sito nucleare segreto di Natanz. Se la Repubblica Islamica ha sempre smentito che cercava di ottenere la bomba atomica e che l’Occidente non le ha mai creduto, oggi mantiene la possibilità di continuare un programma nucleare civile sotto la stretta supervisione dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica. Ma ben oltre la questione nucleare, l’Iran firma con questo accordo il suo ritorno da protagonista sulla scena internazionale. Isolata dal resto del Mondo dalla Rivoluzione Islamica del 1979, e duramente sanzionata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite durante la presidenza dell’ultra conservatore Mahmoud Ahmadinejad (2005-2013) dopo che quest’ultimo aveva rilanciato il programma iraniano di arricchimento di uranio, l’Iran ha cominciato a Vienna la normalizzazione delle sue relazioni con la comunità internazionale. E ufficializza il suo ormai “inesorabile” riavvicinamento con il “Grande Satana” americano.
Questo “riscaldamento diplomatico” inedito è stato reso possibile dalla concomitanza dell’arrivo al potere a Washington di un Presidente democratico – Barack Obama – preoccupato di “tendere la mano” alla Repubblica Islamica e rompere con l’ostilità perpetrata dall’Amministrazione Bush e di quella della presidenza iraniana di un religioso “moderato” – Hassan Rohani – determinato a mettere fine alle sanzioni internazionali contro il suo Paese e girare la pagina storica caratterizzata dalle diatribe infuocate del suo predecessore. Dal Marzo del 2013, ancora prima dell’elezione alla presidenza di Hassan Rohani, Barack Obama aveva dato il suo avallo a dei negoziati segreti tre i “due migliori nemici” del Pianeta per risolvere infine la crisi sul nucleare. Sei mesi più tardi, l’Iran e le grandi potenze riprendevano seriamente i negoziati sotto l’egida del Segretario di Stato Americano John Kerry e del Ministro degli Affari Esteri iraniano, il “moderato” Mohammad Javad Zarif. Anche se è stato trovato un compromesso a Vienna tra l’Iran e le grandi potenze, il testo deve ancora superare un ostacolo importante: il Congresso americano. Contrari ad un’intesa con l’Iran, i senatori Repubblicani e alcuni senatori Democratici hanno 60 giorni per esaminarlo e tentare di silurarlo. Se due terzi, o più degli eletti americani si oppongono all’accordo, allora Barack Obama dovrà opporre il suo veto, che nessuna camera del Congresso potrà superare, se non con una maggioranza di due terzi.
Una volta adottato, l’accordo porterà alla cessazione progressiva delle sanzioni contro Teheran legate al programma nucleare iraniano (ma non quelle americane legate al terrorismo e al non-rispetto dei diritti umani, come per esempio l’Iran Sanction Act del 1996). La fine di queste misure che asfissiano l’economia iraniana (e la vita degli iraniani) permetterà alla Repubblica Islamica di rientrare nei sistemi bancari internazionali, riprendere le vendite di petrolio all’estero e ottenere il disgelo dei beni bloccati in Occidente. Questa considerevole manna finanziaria, valutata centinaia di miliardi di euro, permetterà a questo Paese di 77 milioni di abitanti, dotato di moltissime carte vincenti – la seconda riserva mondiale di gas, la quarta di petrolio, una posizione geostrategica eccezionale, così come una gioventù colta e aperta all’Occidente – di recuperare rapidamente il suo ritardo sui vicini regionali. La prospettiva preoccupa moltissimo le potenze rivali dell’Iran nella Regione, soprattutto Israele e Arabia Saudita. I due alleati tradizionali degli Stati Uniti sono certi che la Repubblica Islamica utilizzerà questa liquidità per finanziare ulteriormente l’Hezobllah libanese, Hamas o la Jihad Islamica palestinese (tutte e tre classificate come organizzazioni terroriste da Stati Unite e UE), o ancora il regime siriano di Bachar al-Assad, tutti nemici dichiarati dello Stato Ebraico e della petromonarchia wahabita.
Ma l’idea di una vera riconciliazione con gli Stati Uniti rimane esclusa al momento, tanto l’antagonismo è profondo tra i due Paesi, 35 anni dopo la crisi degli ostaggi all’Ambasciata americana di Teheran. Così come la supremazia dei conservatori sulla maggioranza dei poteri in Iran (giustizia, Guida Suprema, Parlamento, Guardiani della Rivoluzione) in opposizione con il governo “moderato” di Hassan Rohani imbriglia per il momento qualsiasi prospettiva di un’alleanza irano-americana, perché toglierebbe ai falchi di Teheran qualsiasi ragion d’essere, loro che hanno fondato la loro Rivoluzione islamica sulla “resistenza all’Imperialismo americano”. Prova ne è l’ultima dichiarazione della Guida Suprema, l’ayatollah Khameney, che ha dichiarato pochi giorni fa davanti ad alcuni studenti che bisognava, anche in caso di accordo, proseguire la lotta contro gli Stati Uniti, “esempio perfetto di arroganza”.
Ma il treno del riavvicinamento tra Washington e Teheran sembra essere partito. E potrebbero correggere una curiosa anomalia. Pur non facendo parte della coalizione internazionale contro l’Isis, l’Iran rimane sul terreno il promo Paese straniere che combatte gli jihadisti in Irak. Se Washington e Parigi, che bombardano Daech dall’alto, smentiscono qualsiasi tipo di collaborazione con gli iraniani, la maggior parte degli osservatori sottolineano il fatto che una guerra contro il Califfato sarà vana senza l’aiuto effettivo di Teheran. Il Presidente iraniano lo sa perfettamente, e si è espresso in un tweet rivelatore: “Ora che questa crisi, che non era necessaria, è risolta, nuovi orizzonti emergono per concentrarsi sulle sfide comuni”, ossia la lotta allo Stato Islamico.
La conclusione di questo accordo non è che la prima tappa di un processo che sarà molto lungo. Ha dimostrato che si può ancora negoziare con la Repubblica Islamica, ma la riuscita di questo importante traguardo diplomatico è fragile. Se non si farà nulla per permettere una più ampia integrazione regionale i successi di Vienna non saranno che una debole luce incapace di illuminare il buio infinito.