Nomisma: La Grecia dopo il referendum
Un interessante seminario organizzato da Nomisma con un panel di altissimo profilo formato da Renzo Avesani (Chief Risk Officer di Unipol Gruppo Finanziario SpA), Giovanni Giorgini (Professor of Political Philosophy dell’Università di Bologna), Andrea Goldstein (Senior Economist OCSE) e Paolo Manasse (Professor of Macroeconomics and International Economic Policy dell’Università di Bologna), ha affrontato il tema di Grexit o fix-it che è venuto a proporsi a seguito del referendum indetto in Grecia dal governo Tsipras.
Sgombriamo il campo, innanzitutto, da alcuni luoghi comuni e poniamo l’accento sui vari punti di crisi durante l’evolversi della crisi greca. Secondo i rapporti 2014 della Commissione Europea e 2013 del Fondo Monetario Internazionale in Grecia era stata portata a termina un ristrutturazione del mercato del lavoro così profonda da far sembrare il jobs act roba da polli. In questo ambito erano stati inseriti ampi spazi di liberalizzazioni che avevano mutato in maniera pervasiva il mercato del lavoro in senso moderno e liberista. Ma al lavoro fatto sul versante del mercato del lavoro non ha corrisposto altrettanto fervore in quello dei prodotti, la distonia ha provocato una diminuzione dei salari nominali del 30% riportandoli indietro di 20 anni senza che seguisse percorso analogo il livello dei prezzi, questo ha portato al crollo dei salari reali. Il settore business e licenze commerciali sono praticamente rimasti immutati, far cadere i salari mantenendo la stabilità dei prezzi è stato un grave errore di politica economica.
Si sarebbe dovuto spalmare il riequilibrio dei conti accontentandosi di ottenere un avanzo primario del 1,5%, una ristrutturazione del debito era improcrastinabile, l’intervento sulle pensioni dovrebbe essere più morbido per non abbattere le aspettative sul futuro e deprimere ulteriormente la propensione al consumo, infine dovrebbe essere garantita una massiccia sburocratizzazione per migliorare l’accesso al mercato dei prodotti ed alle esportazioni. Purtroppo come sopra descritto il mancato crollo dei prezzi, oltre impoverire il popolo ellenico, non ha potuto portare aumento dell’export.
Il 19 novembre del 2009 è segnato un poco come la deflagrazione della crisi greca, la Commissione Europea appurò che il rapporto deficit/pil della Grecia non era del 6%, che peraltro il paese ellenico rifiutava di certificare, ma del 12,7%. Il rapporto debito/pil era del 120,8% con un pil in flessione dello 0,3% annuo, il piano di riduzione del deficit dal 12,7% al 9,4% venne giudicato irrealizzabile e Moody’s iniziò il processo di revisione del rating al ribasso a fronte di una apparente impossibilità della stabilizzazione del debito nei dieci anni successivi.
Il default greco fu evitato tramite l’introduzione del Private sector involvement (Psi) adottato dal Consiglio europeo del 21 luglio 2011. In base a questo meccanismo I bond detenuti dai creditori privati (banche, fondi d’investimento, fondi pensione, hedge fund) dovevano essere scambiati con nuove obbligazioni trentennali. I creditori, rappresentati dall’Institute of International Finance (IIF), subirono quindi una svalutazione del 53,5% sul valore nominale dei bond precedentemente detenuti. Non è che tutti i creditori fossero d’accordo, ed era necessaria una quota da raggiungere per far scattare la procedura, a questo punto, ottenuto l’avallo dell’Eurogruppo, la Grecia minacciò l’uso delle Cac (clausole di azione collettiva) inducendo all’adesione anche i più riottosi. D’altronde pagare il default del debito sovrano con il PSI comporta una crisi di fiducia che porta gli investitori ad abbandonare i titoli dei paesi ad alto rischio per dirigersi su quelli con alto rating pur se con rendimenti vicini allo zero se non addirittura negativi.
A margine di queste operazioni fu ristrutturato il debito greco con un taglio, o come viene più eufemisticamente chiamato, haircut, di 110 miliardi di euro tra il 2010 ed il 2012, in pratico è come se ad ogni cittadino greco di qualunque età siano stati dati € 10.000 a testa. Al di là delle considerazioni filosofiche descritte da Kant e riassumibili nella differenza tra debito legale e debito morale, è indubbio che la governance europea non ha agito in maniera ottimale nella gestione della crisi. Ci si è attivati sulle politiche fiscali agendo solo sul lato delle entrate e non su quello delle uscite, ci si perde tuttora su particolarismi che intendono aumentare l’iva sulle isole greche dimenticando che Corsica e Canarie, ad esempio, hanno l’aliquota allo 0%. L’OCSE ha puntato l’indice sulla Grecia, ed anche sull’Italia, individuando fattori di rischio nella bassa concorrenza, sulla bassa qualità del capitale umano, sulla pervasività dell’oligarchia e dei monopoli, e non ultimo, sui conflitti d’interesse.
Per concludere due considerazioni, l’uscita dall’euro auspicata da alcuni, evidentemente a digiuno di sapere e cognizione di causa, porterebbe al disastro sicuro il paese ellenico, che subisce un deficit annuale sul mercato alimentare di 1,4 miliardi di euro, che diventerebbero molti di più in caso di passaggio ad una dracma che avrebbe il valore della carta straccia. Per l’Italia non cambierebbe molto, l’olio di oliva di cui tanto si parla solo in minima parte arriva dalla Grecia, 200.000 tonnellate su 600.000, il nostro maggior fornitore è la Spagna. Nella gestione della cristi si è anche evidenziata la insostenibile differenza tra i tempi della politica e quelli della finanza, con un governo Papandreu che ci mise 7 mesi a varare un piano economico, per non dimenticare i 5 persi dal duo Tsipras-Varoufakis. In questi mesi la finanza speculativa ha potuto agire praticamente indisturbata.