L’Europa di Erasmo

Secondo un sondaggio svolto dalla Tecnè su incarico della CGIL – e riportato anche in queste colonne – gli italiani hanno scarsa fiducia nelle istituzioni europee (come del resto in quelle nazionali, regionali e locali). Il tasso di sfiducia è passato da poco più del 50 a più del 54%. Fatte le debite riserve sulla validità di questi sondaggi, non c’è dubbio che, se in un Paese che anni fa si esprimeva per più dell’80% in senso europeo, le cose sono tanto cambiate, un problema esiste. Le ragioni non sono misteriose: la crisi del 2008 – che con l’Europa non ha niente a che fare – ha colpito duramente economia e impiego, creando un diffuso stato di insoddisfazione nell’opinione pubblica. Ma la ragione più forte è che una certa parte della politica italiana – non la migliore – ha trovato comodo  rigettare la colpa delle nostre difficoltà sui vincoli europei e sulla moneta comune.

Ho sempre insistito sulla fallacia di questa tesi. Per riassumere: al “rigore” siamo tenuti non per un diktat delle istituzioni di Bruxelles e la durezza della signora Merkel, ma perché abbiamo un debito altissimo, che ci siamo costruiti da soli, anno dopo anno, decade dopo decade e che ci impone – pena il fallimento – un comportamento fiscale responsabile, al quale del resto ci siamo impegnati  liberamente aderendo al Trattato di Maastricht. L’UE è la guardiana del rispetto di questi impegni, non un tiranno cieco e insensibile.

Chi poi predica l’uscita dall’euro e il ritorno alla lira propone un programma totalmente irresponsabile. Non dice come finanzieremmo il nostro debito senza l’aiuto della BCE e a tassi che schizzerebbero al livello di quelli pre-euro, non dice come resisteremmo alle speculazioni che periodicamente attaccavano e deprezzavano la lira, rendendola  debole e instabile; non dice quanto più cara sarebbe per noi la bolletta dell’energia e di altre importazioni vitali;  una cosa però questa gente ha ben chiara: che il ritorno alla lira le permetterebbe di tornare alla finanza irresponsabile che tanto fa comodo a certi politici, e alle svalutazioni competitive che danno un passeggero respiro alla nostra bilancia commerciale, ma non fanno che prolungare e aggravare i difetti strutturali del nostro impianto produttivo. Al termine di questi folli esperimenti c’è una sola uscita: il disastro. Che li predichino populisti alla Salvini e Grillo, non è strano. Che, qua e là, li sostengano anche intellettuali reputati seri, economisti ritenuti competenti, e persino politici che hanno avuto responsabilità di peso nella vita del Paese e sanno bene come stanno in realtà le cose, è segno della pericolosa influenza delle mode, specie quando sono sbagliate.

Cerchiamo di portare il dibattito su un piano più alto. Per chi come me ha visto o comunque sa della tragedia della guerra e della fatica della ricostruzione, l’integrazione europea, assieme all’unità dell’Occidente,  è stata il vero e  grande ideale, per il quale valeva la pena lavorarare e, se del caso, lottare. Gli europei si sono ritrovati dopo secoli di sanguinosi conflitti,  hanno riscoperto le loro radici culturali comuni,  hanno messo in comune le loro risorse, dandosi strutture sovranazionali; dapprima quelli occidentali, poi mano a mano quelli del Centro e dell’Est, a cui la Comunità ha offerto un approdo indispensabile dopo l’uscita dalla gabbia comunista. Se qualcuno vuole rinfrescarsi le ragioni di questo ideale, legga quello che scriveva negli anni venti Stefan Zweig nel suo libro su Erasmo, uomo-simbolo dell’umanesimo europeo, vero padre intellettuale dell’Europa unita, a cui è stato giustamente intitolato un programma di scambi studenteschi che è tra i più fortunati e popolari di quelli europei. Vi troverà la più alta spiegazione del perché l’idea europea significa la vittoria della pace sulla guerra, della tolleranza sul fanatismo, dell’ampiezza di vedute sul gretto egoismo nazionale. Idea morale e insieme programma dello spirito. Ma Erasmo, scriveva in tempi in cui l’Europa era centro e padrona del mondo; la Seconda Guerra mondiale l’ha irreversibilmente indebolita e spinta ai margini; siamo in un mondo di giganti, che non fanno che crescere: non più solo Stati Uniti e Russia, ma, India e soprattutto Cina. Da solo, nessun Paese europeo, con la parziale eccezione della Germania, può esercitare alcun peso reale sul futuro del mondo e, alla fine, su quello proprio. Unita, l’Europa può  ancora imporsi come protagonista della vita internazionale: prima potenza economica e commerciale del mondo, grande potenza scientifica e culturale, domani – speriamolo –in grado di assicurare la propria sicurezza in modo autonomo, anche se in partnership con gli Stati Uniti. Che valgono, di fronte a tanta grandezza di concezione e di idee, le sbavature di gente gretta, che vorrebbe riportarci all’epoca dell’egoismo meschino e delle dispute suicide tra vicini?

Nel sondaggio della Tecnè, tuttavia, è emerso anche un dato rassicurante: la maggioranza degli intervistati, pur criticando Bruxelles, non ritiene che l’Italia debba uscire dall’UE o dall’euro. Segno, questo, che la gente non ha smarrito il buon senso. Bisogna dunque concludere  che l’insoddisfazione si appunta non tanto sull’organo quanto su chi lo dirige o lo ha diretto negli ultimi anni. E qui è difficile darle torto: la Commissione diretta da Barroso è stata caratterizzata da un  miope grigiore burocratico; l’Europa di Erasmo, della libera circolazione di persone e di beni, della politica estera comune, dei bassi tassi d’interessi, è apparsa, grazie anche all’evidente limitatezza mentale di alcuni ministri nordici, come Schauble, un insieme di insensibili ragionieri.

Ma l’Europa ha bisogno di essere ben radicata nella mente e nel cuore dei suoi cittadini e vincerne la disaffezione, altrimenti rischia di diventare un ramo secco. E deve farlo, non solo con una migliore comunicazione (pur necessaria) ma con azioni che la riportino all’ideale che l’ha sorretta nei grandi passi in avanti del suo progresso: essere davvero la casa di tutti i suoi cittadini, quella che ne promuove e valorizza la fondamentale identità, che ne difende la civiltà comune, ma anche quella che ne sostiene l’armonioso e solidale progresso economico e sociale. Grazie ad alcune personalità come Mario Draghi e forse Jean-Claude Juncker, qualcosa si sta muovendo in questa direzione, ma la strada da percorrere è ancora molta. Ha ragione Renzi quando chiede un’Europa più vicina alla gente, ma per favore non si limiti alle belle frasi di un discorso. L’Italia non può cambiare da sola l’Europa ma, con idee e alleati adatti, può fare parecchio perché  essa torni a essere quella di Jean Monnet, di Schumann, di De Gasperi, di Adenuaer. E quella di Erasmo: un’idea, un ideale, capace di accendere la mente e il cuore degli uomini.

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