La questione Marò ad Amburgo
Sulla vicenda ormai lunga che interessa i nostri due Fucilieri di Marina, Latorre e Girone, accusati dall’India di omicidio, ho scritto più volte, cercando di mantenere o rimettere le cose nella loro giusta prospettiva: che non è quella di un match Italia-India, né di uno scontro civiltà-barbarie, giustizia-arbitrio, ma una dolorosa storia di morti innocenti, che non autorizza tremolii patriottici di quelli che poi la Patria la mercanteggiano ogni giorno. E per questo ho anche ricevuto critiche e insulti di lettori non proprio garbati. Ma non temo di ripeterlo: si tratta di un problema legale delicato e di non facile soluzione, dove torto e ragioni sono tutti da chiarire, e che suscita da una parte e dall’altra emozioni da non sottovalutare.
Un brutto giorno, in acque intenazionali ma vicine alle coste indiane, i due Fucilieri di Marina, imbarcati su una nave porta-container italiana, hanno sparato su un barcone di pescatori, credendoli pirati. Due pescatori sono morti. Hanno agito bene i nostri marò? Hanno creduto in buona fede che la nave fosse assalita dai pirati frequenti in quelle acque? Credo proprio di sì. È difficile pensare che abbiano sparato con leggerezza, per sport. Alcuni sostengono che non sono stati loro a sparare e a uccidere. Può darsi. Sono tutti punti che devono emergere, con un ragionevole grado di certezza, da un regolare processo. Il resto sono chiacchiere partigiane. Il punto centrale, però, è di sapere a chi spetta fare il processo. Le Autorità indiane sono parse per molto tempo sostenere la competenza della Giustizia del loro Paese (la quale, però, su questo punto ha evitato di pronunciarsi con chiarezza). Da parte italiana si sostiene che la competenza è nostra, essendo il fatto avvenuto a bordo di una nave con la nostra bandiera, e quindi su territorio italiano. Sono convinto che abbiamo ragione. Ho scritto in altra occasione che avremmo rafforzato la nostra posizione se la nostra Giustizia militare avesse per conto suo aperto un processo contro i due Marò e magari li avesse detenuti in occasione della loro licenza di Natale in Italia. Ma questo appartiene al passato, a cui appartengono anche lo spauracchio di un processo in India per terrorismo e di una condanna a morte, tutte cose poi per fortuna smentite
Lo ripeto: non si tratta di una guerriglia tra due Paesi, ambedue democratici e ambedue rispettosi della Legge e con un sistema giudiziario, magari complesso, ma independente. I due Marò non rischiano, per fortuna, la loro vita né oscure torture medievali. Finora, e lo dico con profondo sollievo, non hanno conosciuto un solo giorno di carcere in India. Però i fatti hanno dimostrato che, con sensibilità tanto a fior di pelle nei rispettivi Paesi, non è possibile risolvere la questione per via di amichevoli compromessi. Si tratta di una questione giuridica che va risolta in sede giudiziale, con il ricorso a un arbitro imparziale. Un po’ in ritardo, il Governo italiano si è accorto che la strada giusta era proprio questa e si è ricordato del Tribunale Internazionale del Mare, che siede ad Amburgo. Meglio tardi che mai! Ed è segno positivo che l’India accetti sostanzialmente questa strada.
Il processo ad Amburgo è alle prime battute. La nostra stampa, sempre coloristica, parla di “conflitto Italia-India”, di India “aggressiva”. Lasciamola dire: quando si è davanti a un Tribunale, per di più da noi stessi voluto, è corretto accantonare le facili emozioni e stare alle procedure. Io credo che abbiamo buone ragioni da far valere. Difendiamole al meglio delle nostre capacità (siamo o no la patria del diritto?), tenendo però sempre presente che quello di Amburgo è un Tribunale internazionale, che non abbiamo ragioni di sospettare di parzialità o di interessi oscuri di qualsiasi tipo. Dobbiamo credere che la sua decisione sarà fondata sul diritto. Battiamoci al meglio delle possibilità, affidandoci ai migliori specialisti del diritto sulla materia marittima, italiani e non, senza badare al costo. E prepariamoci ad accettare la sentenza, favorevole o contraria che sia alle nostre ragioni, senza considerarla come una vittoria o una sconfitta in una contesa mortale. E se il Tribunale riconoscesse, come spero di tutto cuore, la giurisdizione italiana, facciamo poi un processo vero, senza concessioni alle emozioni del momento e al “politicamente corretto”. Perché solo così dimostreremo agli occhi del mondo in questa vicenda di essere davvero un grande, serio e civilissimo Paese.