Trivelle in regola, procedure no
Le trivelle? Sono in regola, non si discute. Tanto è vero che sono autorizzate dal Governo. Anzi: i pozzi di petrolio che sorgeranno nei mari e sul territorio italiano hanno i timbri del Ministero dell’Ambiente; come i parchi o le riserve marine protette. I pozzi sono stati autorizzati grazie alle regole: nulla si può dire quindi a chi, nell’ambito di queste regole, ha ponderatamente firmato progetti ed autorizzazioni. Ma se si è arrivati ad autorizzare una miriade di pozzi su un territorio e su mari come quelli italiani, con molti rischi e scarsi riscontri economici, è dentro le regole che bisogna andare a guardare. Con la possibilità di trovare le ragioni della crisi morale, prima che economica, del Paese.
A darne un esempio sono proprio le procedure autorizzative delle trivelle in Adriatico, analizzate pochi giorni dopo le ultime autorizzazioni dal Comitato ‘No Ombrina’. Il Comitato deve il suo nome ad una ormai famosa piattaforma da poco autorizzata dal Governo Renzi ed è fra i soggetti più attivi contro la realizzazione delle trivelle. A proposito della procedura di autorizzazione di tutti gli impianti che serviranno la piattaforma, ed in particolare “le modalità di scavo dei chilometri di condotte sottomarine per gli idrocarburi che dovranno essere posate sul fondale, quelle per l’ancoraggio della meganave Fpso lunga 330 metri che interagiscono pesantemente con il fondale e anche il piano di smantellamento delle opere”, gli studiosi del Comitato hanno rilevato una “illogica inversione procedurale”, ed hanno spiegato che “il Ministero dell’Ambiente riduce questi passaggi progettuali a forme di autocertificazione da parte dell’azienda, o poco più”.
“Illogica inversione procedurale”: non si tratta di un’osservazione da poco. Al contrario, c’è dentro tutto. Andando per ordine: da tempo, in nome di una giusta e opportuna sburocratizzazione, è stato introdotto in numerose pratiche lo strumento dell’autocertificazione. Giusto e opportuno, per pratiche che riguardano la dimensione personale; ma come è stato possibile applicare il criterio alla base dell’autocertificazione, ovvero la mera verifica a posteriori dell’iniziativa personale da parte della pubblica amministrazione, a progetti di dimensioni colossali, che impattano su beni comuni di enorme interesse come ambiente e paesaggio, o sull’economia di intere regioni? Ne è un esempio proprio la Valutazione di Impatto Ambientale, ovvero il tipo di autorizzazione concessa per Ombrina e per la lunga serie di pozzi che sorgeranno sul territorio di quasi tutte le regioni: uno strumento che consente ai petrolieri di scavare pozzi purché promettano, aiutandosi con faldoni fitti di studi e previsioni, di non inquinare.
Com’è possibile che lo Stato abbia abdicato alla sua funzione primaria, ovvero a priori e non a posteriori, di valorizzazione della cosa pubblica? E’ concepibile che lo Stato Italiano nel suo ordinamento non si sia dotato di una concezione più aggiornata del bene comune e che non si sia procurato strumenti per un ben diverso tipo di valutazione, quella dell’enorme valore del paesaggio e dell’ambiente del Bel Paese? E’ accettabile che al dilà delle dichiarazioni occasionali dei suoi rappresentanti istituzionali lo Stato non esprima attraverso i suoi Governi un progetto di politica economica coerente e di lungo periodo, fondato quindi su risorse vocazionali e non delocalizzabili come turismo, beni culturali e prodotti tipici? E’ moderno, è ragionevole che abbia definitivamente perso qualsiasi strategia di valorizzazione delle sue risorse naturali? E’ comprensibile che, privo di tutto questo, si limiti quindi a rincorrere, con valutazioni e certificazioni circoscritte in modo miope ai singoli progetti, l’iniziativa privata sui beni pubblici di cui ha competenza? Ecco in cosa consiste l’ “illogica inversione procedurale” identificata dagli studiosi del Comitato ‘No Ombrina’: lo Stato viene dopo, e non prima, verificando e non pianificando, e così facendo cede all’iniziativa invece di assumerla per primo. Un problema con gravi conseguenze sul bene pubblico, tanto da meritare un passaggio nell’enciclica Laudato si’ che afferma che la Valutazione di Impatto Ambientale deve precedere, e non seguire i progetti: semplicemente logico.
Purtroppo, il decreto Sblocca Italia varato dal Governo Renzi si colloca nell’ormai ventennale tendenza legislativa della ‘illogica inversione procedurale’: ridurre il controllo dello Stato sul territorio anziché incrementarlo, lasciando spazio e precedenza all’iniziativa privata. La quale non si è fatta attendere, come dimostra la valanga di richieste di apertura di pozzi, non solo oltre le dodici miglia marine ma ormai anche sulle spiagge o sul territorio italiano. Un pessimo affare quello delle trivelle, viste le basse royalties richieste dallo Stato italiano, immiserite dal prezzo irrisorio del greggio e dal costo che verrà pagato da decine di amministrazioni che stanno scommettendo sulla bellezza del territorio e su milioni di imprese che puntano sulle uniche voci attive dell’economia italiana, ovvero turismo e prodotti tipici. Né certo costituiscono una compensazione i posti di lavoro e l’indotto che i pozzi potrebbero generare, dato che in pochissimi anni, esaurita l’ultima goccia degli scarsi giacimenti italiani, gli impianti chiuderanno, lasciandosi dietro una folla di disoccupati. E allora, perché? Per quella ‘inversione’, procedurale ma non solo, che oltre che all’ambiente e al paesaggio sta dando duri colpi alla logica e al sentire comune, e al primo bene comune: lo Stato.
[NdR – L’autore cura un Blog dedicato ai temi trattati nei suoi articoli]