L’economia non decolla con un +0,2%

L’economia italiana non decolla. Nel secondo trimestre del 2015 il Pil è aumentato dello 0,2 per cento rispetto al trimestre precedente. A renderlo noto è l’Istat che nella stima preliminare diffusa nei giorni scorsi fotografa una ripresa più lenta rispetto a quelle che erano le previsioni della maggior parte degli analisti.

A voler fare gli ottimisti si tratta del secondo incremento consecutivo, dopo il +0,3 per cento del primo trimestre e per fare anche i pignoli questo dato si può leggere come un attestato che finalmente lancia l’Italia fuori dalla recessione. Ma i numeri, si sa, molto più delle parole si possono interpretare. E non serve certo una laurea in economia per capire che il Pil cresce troppo poco e che non ci si può accontentare di un misero +0,2 per cento. Per rendersene meglio conto, risulta particolarmente utile fare qualche paragone con gli altri Stati di Eurolandia. La disastrata Grecia, quella del referendum, la stessa che ha un governo dimissionario e che ha rischiato il default, fa incredibilmente meglio di noi, con un +0,8 su base annuale (l’Italia si ferma allo 0,5 per cento).

Se non si contestualizzano, dare i numeri serve solo a sembrare folli. Allora ecco il confronto che più di tutti rende l’idea che il nostro Pil cresce troppo poco: la Spagna fa un balzo dell’1 per cento su base trimestrale e addirittura del 3,1 per cento annuale. Tra l’altro è in continua accelerazione considerando che nel primo trimestre cresceva infatti del 2,7 per cento su base annuale e dello 0,9 trimestrale. Peggio di noi, in Europa, su base annuale c’è solo la Finlandia (con un -1 per cento) che però deve fare i conti con la crisi della Russia e della Nokia.

Per il premier Matteo Renzi, si tratta di una “svolta” e finalmente l’Italia poco alla volta esce della crisi e riprende a crescere. Quello che pare evidente, invece, è che la politica economica del governo Renzi è mirata solo a favorire le grandi imprese e le banche. Secondo l’Ocse l’80 per cento dei fondi in Italia va alle grandi imprese e solo il 18 per cento alle piccole. Ci si dimentica completamente dei piccoli imprenditori e delle partita Iva. La reiterata noncuranza dei lavoratori autonomi è a dir poco incomprensibile e lo scivolone clamoroso sui regimi dei minimi è lì che testimonia l’imbarazzo dell’esecutivo nei confronti di questa fetta di lavoratori che negli anni della crisi è aumentata a dismisura. L’economia riparte solo se si rimettono in moto queste categorie di contribuenti.

Il Jobs Act ha certamente aumentato i contratti a tempo indeterminato (a tutele crescenti) ma questo non significa per forza che abbia generato occupazione perché le altre forme contrattuali sono diminuite, in favore di quella che garantisce sgravi fiscali a chi assume. Le riforme su cui il governo si gioca la faccia, Senato e legge elettorale, non hanno a che fare con l’economia. C’entrano, eccome, le recenti dichiarazioni sulla riforma fiscale in programma nel prossimo triennio. Si parte nel 2016 con l’abolizione delle Tasi sulla prima casa. Al di là del fatto che il dibattito è accesissimo per capire dove reperire la copertura, per far davvero ripartire i consumi occorrerebbe rivedere anche l’Imu sulla seconda casa, arrivata ormai ad aliquote incredibili. Solo così si darebbe un po’ di respiro al mercato immobiliare.

Certo è più facile sbandierare il provvedimento degli 80 euro per i lavoratori dipendenti. E pazienza se poi questi soldi le famiglie se li mettono da parte per pagare le tasse piuttosto che spenderli per far girare l’economia. L’Italia, intanto, cresce dello 0,2 per cento. Bisogna accontentarsi?

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