Ricordo di Palmyra
Era la fine degli anni Sessanta, un decennio che ora sembra lontano come un film in bianco e nero ingiallito dal tempo. Vivevo a Beiruth ma andavo spesso in Siria, che era allora un paese relativamente in pace grazie alla mano di ferra di Hafez Assad, un paese povero ma affascinante, con le sue grandi estensioni desertiche e le tracce di civiltà antiche e meravigliose: quella sumero-ittita, quella romana, quella greco-bizantina, quella araba (soprattutto nella splendida Aleppo), e i ricordi dei Crociati, come nell’imponente Krak dei Cavalieri. Di queste bellezze, Palmyra era la più imponente. La visitai con amici libanesi e poi con un amico ufficiale italiano e sua moglie. Di quelle visite ho un ricordo incancellabile.
Palmyra è straordinaria per la sua grandezza e l’imponenza delle sue strutture: chilometri di colonnati romani ancora in piedi, un magnifico teatro, terme, insomma tutte le caratteristiche di una grande città imperiale romana. Ma quello che la rende unica è il fatto di trovarsi ai limiti del mondo romano di allora, nel deserto, tra colline di sabbia, e perché in essa si fondono armoniosamente la grande architettura romana con la ricca decorazione orientale. Impressionante è anche la sua lunghissima storia di grande centro commerciale sumero, poi romano, greco, arabo, tappa delle carovane che venivano dal fondo dell’Arabia, dall’Irak o da molto oltre e percorrevano migliaia di chilometri al passo lento e paziente dei cammelli e lasciavano negli empori della Città ricchezze enormi. Nel tardo Medioevo era chiamata – per questo suo carattere di ricchissimo centro commerciale – la “Venezia delle Sabbie”.
Al tempo delle mie visite, il luogo era poco curato dal regime, che dava poca importanza al turismo e forse non amava vedere troppi stranieri circolare per quelle terre strategiche per la prossimità all’Irak. C’era un solo hotel, il Regina Zenobia, che ricordava nel nome la fiera sovrana che si ribellò a Roma e fu sconfitta dall’Imperatore Tito in una memorabile campagna che lo portò a traversare in pochi giorni il deserto siriano. Tito distrusse la città primitiva ma i Romani edificarono al suo posto una delle più belle e grandiose città del loro impero (credo che forse solo Leptis Magna, in Libia, altra meraviglia poco conosciuta, può paragonarsele). Era un hotel abbastanza spoglio, ricordo che veniva raccomandato di portarsi le lenzuola, perché quelle fornite dalla direzione erano umide. Da mangiare c’era solo pollo, cotto alla moda araba. Ma questi disagi relativi venivano largamente compensati dallo spettacolo delle imponenti rovine, dalla meraviglia del sole che sorgendo illuminava a un tratto le colline di sabbia, e dalla straordinaria fusione di Occidente e Oriente che forniva – come a Baalbeck in Libano – la presenza di famiglie beduine con i loro cammelli, le loro tende, i loro mantelli neri di lana (le “abbaye”), il loro caffè amaro, denso e nerissimo, ma anche la loro immemoriale cortesia.
Ho spesso desiderato tornarci, ma per varie contingenze non è stato possibile. L’ultimo viaggio in Siria l’ho fatto con una missione diplomatica europea a Damasco, all’inizio degli anni Novanta. Damasco era molto cambiata, c’erano buoni hotel e buoni ristoranti, era evidente che il regime aveva generato una borghesia (per lo più funzionari del governo o del partito o militari, persone legate comunque alla mano pubblica) abbastanza prospera e con gusti di vita occidentali. Era un paese laico, lontano dagli eccessi del fanatismo religioso cui ci stiamo purtroppo abituando. In quel viaggio, spingerci fino a Palmyra era impossibile. Di recente, un amico argentino mi ha mostrato uno splendido video girato da una troupe francese e la nostalgia mi ha nuovamente afferrato. Ma andare a Palmyra, come in molte altre parti della Siria e del Medio Oriente, è oggi impensabile. Su Palmyra, in particolare, si è accanito il cieco fanatismo dell’IS. Sarà difficile anche a quella gente cancellare completamente quella meraviglia (che è patrimonio dell’Umanità repertoriato dall’UNESCO) ma non impossibile: è facile immaginare quali danni possano fare un po’ di esplosivi. Intanto, l’archeologo ottantenne che curava la Città – e che ricordo allora giovane e affascinante guida dei luoghi – è stato barbaramente giustiziato.
Insomma, uno dei luoghi più belli del Medio Oriente, punto di incontro tra tante illustri civiltà, rischia di scomparire. E con esso un pezzo della cultura immemorabile dell’Umanità. Certo, il massacro di esseri umani è un orrore che scuote la coscienza più della distruzione di qualche monumento, per splendido che sia. Eppure, sono facce dello stesso fenomeno e, alla lunga, il danno per l’Umanità è forse altrettanto grande.
E allora viene da chiedersi, una volta ancora: chi metterà fine a questo scempio? Chi sconfiggerà questi nemici del genere umano? Chi, assieme a migliaia e migliaia di innocenti in pericolo, salverà quello che resta della cultura, della memoria collettiva, quella che ci fa uomini e degni di vivere? In una sola parola: che fa l’ONU?
Un Commento
E’ un articolo che tocca il cuore e l’anima.
In un attimo mi sono ritrovata a Palmyra senza esserci mai stata.