Giotto, l’Italia

Milano – A chiudere il programma ExpoinCittà, iniziato a marzo con la mostra dedicata alla Milano di Visconti e Sforza e proseguito con la mostra di Leonardo, con coerenza progettuale, l’esposizione Giotto, l’Italia, fino al 10 gennaio 2015 a Palazzo Reale. 13 opere su tavola e un frammento d’affresco, per un appuntamento definito dai curatori entusiasti, Pietro Petraroia e Serena Romano, “imperdibile” e “non più realizzabile”.

I precedenti sembrano aver perso qualsiasi importanza. Eppure, l’iniziativa di quest’anno dovrebbe presentarsi sicura di sé e dell’altro da sé, per inserirsi nel solco e aggiungere novità che non rischino di limitarsi all’allettante potenza da impatto iniziale, prodotto da annunci altisonanti. Lo stesso percorso espositivo propone il rilancio di studi comparati – il materiale perché questi sussistano non scarseggia.

Il precedente storico milanese dedicato al maestro toscano (Vespignano, 1267 circa – Firenze, 8 gennaio 1337) è la mostra del 1937, organizzata in occasione dei seicento anni dalla sua morte, dove i dipinti autografi erano otto. Temporalmente più vicina a noi, è l’ultima fondamentale rassegna Giotto. Bilancio Critico di Sessant’anni di Studi e Ricerche, organizzata nel 2000 alla Galleria dell’Accademia di Firenze. Nell’occasione fiorentina i Giotto considerati autografi ordinati in mostra erano ben 17, tra cui tanti confluiti a Milano, o 19 se aggiungiamo anche due piccole tavolette di collezione De Carlo.

Ora, presso Palazzo Reale – che ingloba strutture del palazzo di Azzone Visconti, dove negli ultimi anni della sua vita Giotto realizzò due cicli di dipinti murali profani, andati perduti – in nove sale, dalle pareti grige, si articola cronologicamente la carriera dell’artista che, attraverso le proprie commissioni, fece viaggiare la sua rivoluzione espressiva e naturalizzante del figurativo per tutta la Penisola. In serie, agli occhi del visitatore sono presentati il frammento della Maestà della Vergine, da Borgo San Lorenzo, e l’altra Maestà della Vergine, da San Giorgio alla Costa, ascrivibili al periodo degli affreschi testamentari e francescani d’Assisi.

Poi il nucleo dalla Badia Fiorentina (1295 ca.), con il polittico dell’Altar Maggiore, e dalla Galleria dell’Accademia di Firenze e dai depositi della Soprintendenza, dov’erano confinati da oltre cinquant’anni, i frammenti d’affresco del primo decennio del Trecento che decoravano la Cappella Maggiore sempre della stessa Badia Fiorentina. È, quindi, il momento della tavola con il Dio Padre in Trono (1303-05 ca.), tavola un tempo incastonata tra gli affreschi della Cappella degli Scrovegni. Seguono i polittici, entrambi bifronti e del secondo decennio del Trecento, di Santa Reparata, l’antica cattedrale di Firenze, e del Cardinale Iacopo Stefaneschi, per San Pietro in Vaticano (mai uscito prima d’ora dai Musei Vaticani); con quest’ultimo è stato presentato un frammento della decorazione affrescata dell’abside alle spalle dell’altare in questione.

Questo frammento (1315-20) – la “chicca” secondo la curatrice Romano -, raffigurante due teste di apostoli o santi, ad ogni modo, qui finalmente pubblicamente visitabile, non è altro che un esempio già riconosciuto nel catalogo della mostra fiorentina del 2000, dove si spiega che è conservato ad Assisi nella collezione privata Fiumi Della Genga.

Il percorso espositivo si conclude con i dipinti risalenti alla fase finale del vita del maestro: il polittico di Bologna, che Giotto dipinse nel contesto del progetto di ritorno in Italia, a Bologna, della corte pontificia allora ad Avignone; e il polittico Baroncelli dall’omonima cappella di Santa Croce a Firenze, che nell’occasione della mostra verrà ricongiunto con la sua cuspide del pannello centrale, raffigurante il Padre Eterno, conservata nel museo di San Diego Museum of Art.

Il costo totale della mostra di Palazzo Reale è stato stimato a 1,6 milioni di euro, compresi i restauri, i trasporti e alcuni climabox, ovviamente escludendo dalla cifra i valori assicurativi quantificabili in molte centinaia di milioni di euro. Una cifra, fornita dal responsabile di Palazzo Reale Domenico Piraina, tutto sommato contenuta anche prendendo in considerazione il progetto di allestimento a “grado zero”, con la costruzione di quelli degli “altari profani”, affidato all’architetto Mario Bellini, che ha utilizzato 20 tonnellate di ferro. “In nove sale, – ha spiegato Bellini- ho posizionato 10 tonnellate di ferro grezzo a pavimento e il resto per creare i dieci altari, tutto materiale che al termine dell’esposizione sarà riciclato.”

Ed è proprio da riconoscere a questo allestimento sobrio e attento a non prevaricare i dipinti il merito di suggerire i formati originari dei dipinti quando siano giunti a noi modificati, mentre la luce concentra l’attenzione sulla preziosa superficie pittorica. Spiega la Romano: “A Giotto si commissionava un’intera cappella: l’arredo dell’altare e la decorazione ad affresco. Accadde alla Badia, poi in San Pietro a Roma e nella Cappella Baroncelli in Santa Croce, dove dipinse il polittico, affidando gli affreschi a Taddeo Gaddi; e chissà in quanti altri casi ancora, oggi perduti.”

La mostra risulta tracciare con abbastanza successo una mappa dell’attività del Maestro, dimostrando come, con spirito imprenditoriale, gestisse più cantieri contemporaneamente, facendo luce sommaria su numerosi dubbi d’attribuzione: “Si suole mettere in sequenza i diversi cantieri – continua Serena Romano – ma per Giotto occorre pensare a un nuovo modello, che preveda la compresenza e la delega a vicari e aiuti, seppure sotto la sua regia implacabile. Si spiegano così quelle differenze di esecuzione che hanno fatto versare fiumi d’inchiostro”.

©Futuro Europa®

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