Il trucco c’è, ma (quasi) non si vedeva

Parliamo di sogni di supremazia infranti. Parliamo di top brand identificativi di un intero sistema-paese. Parliamo di software malandrini. Parliamo di danni alla concorrenza e alla salute dei consumatori. Parliamo di tutto questo e aspettiamo di vedere se chi è sempre pronto ad applicare agli altri il mantra della ferrea intransigenza riserverà a sé stesso il medesimo trattamento.

“Defeat device”, questo il nome del programma informatico responsabile della manipolazione dei parametri nella centralina delle automobili, durante le fasi di controllo sulle emissioni inquinanti di anidride carbonica e biossido d’azoto. Il funzionamento è semplice: l’algoritmo, quando il veicolo è sottoposto a test antismog, comunica al motore di ridurre al minimo i gas nocivi di scarico, rientrando così nei limiti fissati per legge, salvo poi allentare la briglia durante la normale circolazione ed immetterne nell’aria fino a 40 volte oltre il consentito.

L’agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente EPA (Environmental Protection Agency) ha accertato che le vetture a gasolio del colosso tedesco Volkswagen, vendute sul mercato nordamericano dal 2009 ad oggi, abbiano eluso i controlli e violato la normativa in materia, grazie al sofisticato giochetto. Tra l’imbarazzo per essere stata pizzicata, seppur tardivamente, col sorcio in bocca e la costernazione esilarante del vertice aziendale, scoppia per la rea confessa casa di Wolfsburg il “Dieselgate”. I numeri dello scandalo: 11milioni d’auto “truccate” da richiamare, in circolo nel mondo; 18 miliardi di dollari di sanzioni in vista; 24 miliardi di euro bruciati in due giorni di crollo verticale dei propri titoli in Borsa, con svalutazione di circa un terzo rispetto al periodo pre-scandalo. In poche righe, la frode di uno dei maggiori costruttori di veicoli del globo, con aspirazioni da primo della classe e brame di conquista del mercato Usa proprio in un settore, quello dei motori diesel, mai particolarmente apprezzato dal guidatore stelle e strisce. Stridono le campagne pubblicitarie avviate in contemporanea con la consumazione del reato, caratterizzate da slogan inneggianti al rispetto dell’ambiente e alla “politica verde”, in cui l’azienda afferma di rispecchiarsi.

Le reazioni non hanno tardato a manifestarsi: anche nel Vecchio Continente, Francia e Italia chiedono un approfondimento d’inchiesta a livello di Unione, paventando l’ipotesi di bloccare nei rispettivi territori le vendite di modelli a gasolio di Volkswagen e Audi. Non è da trascurare, inoltre, la preoccupazione che altri marchi, e non solo tedeschi, possano aver fatto ricorso ad analoghi stratagemmi per aggirare i controlli. Nel frattempo, cominciano a rotolare nel cesto le prime teste. Apre il macabro rito il CEO del gruppo tedesco, Martin Winterkorn: sulle prime, dichiara che la casa prevede uno stanziamento di 6,5 miliardi di dollari per fronteggiare il problema, assicura che i modelli circolanti in Europa sono in regola (ma poi, proprio ieri, il ministro dei Trasporti tedesco, Alexander Dobrindt, ha reso noto che “siamo stati informati che anche in Europa i veicoli con motori diesel 1.6 e 2.0 sono stati manipolati”) e, battendosi il petto per aver tradito la fiducia dei clienti, mostra l’intenzione di restare in sella in nome della stabilità della governance aziendale; come pronosticato dalla stampa, invece, sarà “dimissionato” al termine della riunione del board di sorveglianza nel pomeriggio di mercoledì e il titolo recupererà parzialmente sui mercati azionari. Suo compagno di viaggio è Peter Meyer, presidente di Adac, omologo teutonico del nostro Automobile Club, dimissionario per aver orchestrato una manipolazione di dati relativi al Gelber Engel, prestigioso premio legato alla classifica delle auto preferite in Germania, assegnando il trono al modello Volkswagen Golf.

Sembra, dunque, che il produttore tedesco abbia consapevolmente messo in campo più strategie e sinergie per il primato mondiale del settore e che lo abbia fatto barando. Ma le responsabilità potrebbero allargarsi e trasferirsi sul piano politico, disegnando  scenari assai più inquietanti: la testata tedesca Die Welt sostiene la tesi secondo cui l’esecutivo della cancelliera Merkel fosse a conoscenza dell’illecito utilizzo del software incriminato. Al proposito, esisterebbe un documento comprovante l’accusa, frutto d’interrogazione parlamentare promossa dai Verdi nel Bundestag, recapitato al ministro dei trasporti Alexander Dobrindt nel mese di luglio. Dobrindt, tuttavia, smentisce categoricamente.

Comunque vada, il danno d’immagine non investe solo un’azienda che dà lavoro a 600.000 dipendenti e i suoi fornitori, ma tutto il paese: è a rischio l’occupazione, è compromesso l’export e il Made in Germany in generale, sono macchiate quella reputazione e quella credibilità che fanno della nazione tedesca la locomotiva d’Europa. Forse, rotoleranno presto altre teste.

©Futuro Europa®

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