Il messaggio di Papa Francesco

Il viaggio di Papa Francesco a Cuba e negli Stati Uniti ha avuto certamente grande portata, non solo per le folle che lo hanno seguito e l’entusiasmo che ha sollevato (Giovanni Paolo II sollevava gli stessi entusiasmi) ma per il messaggio, complesso ma nell’insieme chiaro, che il Sommo Pontefice ha lanciato. A Cuba egli ha condannato in modo inequivoco il furore ideologico e messo all’ordine del giorno la riconciliazione nazionale, di fronte a una dirigenza sclerotica che cerca a tentoni una via d’uscita da una situazione sempre più critica, ma non ha ancora il coraggio di dare il salto definitivo. Eppure prima o poi dovrà darlo, o sarà costretto a farlo dalle circostanze e non sarà un processo privo di traumi.

Negli Stati Uniti, il discorso al Congresso ha avuto, a mio avviso, almeno tre punti di grande rilievo. Il primo sta nell’elogio che il Papa ha fatto del Paese dei “liberi e valenti” e delle sue grandi conquiste. Può sembrare retorica e forse in parte lo è, ma per chi conosce lo spirito diffidente e geloso con cui in America Latina si guarda al grande vicino del Nord, non è certo un elogio  scontato. Specie da un personaggio che, come Bergoglio, resta profondamente argentino e le cui radici ideologiche restano “peroniste”, cioè nazional-popolari. Peron, con i suoi difetti e virtù, ha segnato profondamente il pensiero argentino, diffondendo un’ideologia dai contorni spesso confusi ma in cui alla fine non è arduo riconoscersi. Papa Francesco si è issato al di sopra delle sue origini, acquistando universalità, ma non ha potuto cancellarle.

Altrettanto vale per il secondo punto, cioè il forte invito a superare le diseguaglianze sociali. Niente di nuovo da parte di un Pontefice, ma per Francesco non si tratta di una clausola obbligata e di stile. Per quel che lo conosco e ricordo dai tempi di Buenos Aires, Bergoglio è uomo profondamente intriso di anelito di eguaglianza. Quando andavo a trovarlo, mi colpiva l’estrema modestia della sua vita privata, che non era ostentazione, ma regola di vita intima e sentita. La sua opera si rivolgeva principalmente ai poveri, ai diseredati delle “città miseria” e lo portava a rifuggire, anzi a disdegnare, qualsiasi forma di agio o di forma. Il suo messaggio acquista tutto il significato quando si pensa che era rivolto a un Congresso in maggioranza repubblicano, quindi conservatore e, per lo standard europeo, persino reazionario, attento a valori diversi. Non so se chi lo applaudiva con tanto entusiasmo, tra i deputati e senatori che lo ascoltavano, abbia realmente capito fino in fondo significato e portata del messaggio. Che, se preso nella lettera e nello spirito, suona persino populista. Se non rivoluzionario, quando lo si legge accanto all’aperta condanna della speculazione finanziaria e del capitalismo dei consumi (per questo, accanto ai consensi, non sono mancate negli Stati Uniti anche voci di forte critica).

Su questi temi, è difficile dare torto al Papa, ma viene fatto di considerare che i suoi inviti rischiano di rimanere retorici se non si spiega chiaramente come libero mercato e solidarietà sociale possano conciliarsi, senza appesantire e alla fine distruggere quel sistema economico che, come ha dimostrato la Storia (persino in Cina) è il solo capace di assicurare progresso e quindi di superare alla redici i problemi della povertà. La ricetta populista è risaputa: distribuire soldi a tutti, abituandoli a una vita assistita e dipendente dal buon volere pubblico. Ma è una ricetta condannata al fallimento (sta accadendo anche nell’Argentina di Bergoglio, dove quel “modello” è in vista del capolinea) e non credo che il Papa possa davvero farla propria.

Il terzo punto riguarda l’immigrazione. L’aver rivendicato la sua qualità di figlio di immigranti, l’aver dichiarato che l’America “non teme gli stranieri” e che non bisogna lasciarsi ossessionare dai numeri ma guardare in volto a ogni persona e alla sua storia, suona come un monito non nuovo per gli europei abituati alla predicazione papale, ma certo deve aver scosso qualche coscienza in un Paese che, pur se deve tutto all’immigrazione dal di fuori, tende ora a chiudersi entro le sue frontiere. Penso tuttavia che il Papa avrebbe dovuto anche spendere qualche parola di riconoscimento per quanti fanno, giorno dopo giorno, quello che è in loro per salvare migliaia di vite e dare ai rifugiati un minimo di accoglienza (perché non ha mai una parola di elogio per la nostra Marina Militare? Confesso che la cosa mi disturba non poco). E anche per dare atto delle difficoltà che si aprono nella pratica di fronte ad un’accoglienza generalizzata e senza limiti. Che questi aspetti manchino dal discorso papale, a me sembra una carenza grave.

Infine, il ripudio della guerra. Nel suo messaggio c’è, anche in questo caso, una sorta di buco; Francesco condanna il fanatismo che uccide in nome di una religione (ma poi, diplomaticamente, afferma che eccessi possono esserci in tutte le religioni, il che, allo stato attuale, è perlomeno discutibile). Invita  anche a combatterlo. Ma come? Con i buoni propositi, con il dialogo, con la comprensione. Ma Il Papa sembra ignorare la vera natura del male a cui, non solo i cristiani, ma la civiltà occidentale, sono oggi esposti: la sua ferocia, la sua impermeabilità ad ogni ragionamento di pace, la sua perversa volontà di distruggere tutto quello che sia diverso e non si pieghi alla sua volontà. E sfugge dall’accettare i mezzi necessari ad opporvisi. Nessuno si aspetta che un Papa proponga e sostenga la guerra (neppure quella “giusta”), ma almeno eviti dal denunciare e magari condannare quelli che tentano di opporsi al male con il solo mezzo necessario: la forza delle armi. Insomma, il Papa cerca di volare alto e di fare un discorso politicamente corretto; e si può capire. Ma la sua voce rischia di creare confusioni e turbamenti che sarebbero dannosi quando ad una intera civiltà incombe il doloroso obbligo di difendere sé stessa e i propri valori. Se è necessario, anche con le armi.

Tralascio altri punti, come la pena di morte, che riguardano la coscienza degli americani. E non mi soffermo sul discorso alle Nazioni Unite: di alto livello, senza dubbio, ma in gran parte scontato. Forse solo l’accesa difesa dell’ambiente può aver lasciato una traccia, soprattutto considerando la maggiore coscienza che pare diffondersi nel mondo su questo  tema, se ormai non solo gli Stati Uniti di Obama, ma la stessa Cina, si mostrano ad esso aperti. L’appassionato richiamo a superare la povertà nel mondo era scontato da parte del rappresentante di Cristo. Che altro poteva o doveva dire? Ma la Chiesa non ha responsabilità di governare, solo di indirizzare e predicare il bene. Questi sono i suoi limiti. Però forse la parola di un Papa carismatico e popolare come Bergoglio qualche traccia la lascerà. Specie se accompagnata dall’esempio quotidiano di una Chiesa che si allontana da trionfalismi e lusso per tornare a uno stile di vita più evangelico e francescano. Dando quello che più le si chiede: l’esempio.

©Futuro Europa®

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