Foreign Fighters, lo strano caso dell’Oman
Rileggendo il rapporto sui Foreign Fighters in Iraq e Siria, pubblicato all’inizio dell’anno dal Centro Internazionale per gli Studi sulla Radicalizzazione e la Violenza Politica (ICSR)che ha sede a Londra, troviamo dati noti che confermano paesi come Tunisia e Arabia Saudita in testa della classifica, con numeri che vanno tra le 3000 e 3500 unità. Moltissimi combattenti arrivano dalle regioni MENA (Medio Oriente e Nord Africa) e da Paesi dell’ex Unione Sovietica. Un dato ci colpisce in modo particolare: non c’è un solo caso registrato di combattenti provenienti dall’Oman. Come spiegare questa eccezione? Può essere d’esempio (e una speranza) per gli altri Paesi del Mondo Arabo?
Se è vero che l’Oman è firmatario della Convenzione Internazionale per la Lotta al Finanziamento del Terrorismo (siglata da tantissimi, ma anche non osservata da un buon numero di Stati membri) e che Muscat ha creato una Task Force per la lotta al Riciclaggio (AML) e che Combatte il Finanziamento al Terrorismo (CFT) in conformità agli standard internazionali, molti analisti ritengono che il fallimento di Daesh nel reclutare uomini (anche se semplici “lupi solitari) nel Sultanato vada analizzato partendo dalla politica estera e dalle norme sociali dell’Oman. A differenza delle altre Monarchie del Golfo, la contrapposizione Wahabbismo/Salafismo non è il pilastro della politica estera, che ha invece enfatizzato il lato del “dialogo” con tutti i vicini e ha respinto qualsiasi forma di estremismo. L’Oman è un’eccezione nella Regione per tre motivi. Prima di tutto per la sua Storia: il Sultanato è, con lo Yemen, un Paese la cui esistenza è attestata da almeno 20 secoli, a differenza degli altri Emirati e Regni della Penisola, tutti di recente creazione. In secondo luogo per la sua visione della Religione: gli abitanti dell’Oman sono in maggioranza Ibaditi, ramo minoritario dell’Islam nato dal Kharid-jismo, violento e scomunicatore (takfiri), dal quale si sono però allontanati per dare i natali ad una comprensione originale dell’Islam, al contempo austera e quasi puritana e soprattutto incredibilmente tollerante verso le altre confessioni, tenendosi così a debita distanza dalle passioni sunnite e sciite: ibaditi, sunniti e sciiti pregano tutti nella stessa Moschea, così come c’è spazio per tutte le altre religioni. Infine per il suo posizionamento Geografico: isolati volontariamente dal resto dell’insieme arabo, questi Beduini furono anche bravissimi navigatori ed estesero il loro Impero lungo le coste orientali dell’Africa. A metà ‘800, Muscat formava uno solo Stato con Zanzibar, prima che una guerra fratricida tra eredi di Said Ibn Sultan al-Said, morto nel 1856, non lo smembrasse.
I rancori con l’Arabia Saudita sono oggi uno degli elementi che rendono vulnerabile quest’oasi di Pace. Se il Paese non può che sentirsi fiero per non aver fornito alcun combattente alla setta malefica dell’Isis, grazie alla sua peculiarità religiosa, la minaccia è alle porte. Perché dietro alle critiche fatte alle atrocità commesse dall’ISIS si delineano, tra le righe, pesanti accuse all’Arabia Saudita. Nelle conversazioni traspaiono sempre più i rimproveri all’Arabia Saudita e alla poca lungimiranza mostrata negli ultimi 40 anni: “i sauditi hanno convinto Saddam Hussein a gettarsi sull’Iran dei Mollah, per poi rivoltarglisi contro. Un loro compatriota, Osama Bin Laden, ha creato Al Qaeda. Lo hanno sostenuto fino a che quest’ultimo non gli ha dato addosso. Oggi combattono in Yemen, senza pensare alle conseguenze…” Raramente espresso pubblicamente, questo rancore affiora sempre più, non tanto per le pretese territoriali sull’Oasi di Buraimi, ma per l’imperialismo religioso che fa sempre più paura. L’Ibadismo, somiglia più ad una religione nazionale che ad una religione di Stato per l’armonia che regna tra le confessioni religiose, ma i timori per la radicalizzazione della minoranza sunnita, ufficialmente stimata al 15% della popolazione, ma che pare essere molto più alta, crescono. Prudenti, le autorità vegliano a non inasprire le crepe, pronti a promuovere un “Islam generico”: l’idea è quella di mettere in evidenza ciò che unisce, ciò che somiglia, insegnare un Islam comune ai tre rami, che non sia in conflitto, ma in armonia con i valori “universali”.
Questa singolarità si ritrova in ambito diplomatico. Oman è uno Stato che ha poca visibilità sulla scena mediatica regionale, cosa che non gli impedisce di portare avanti una diplomazia molto attiva. Il Sultanato si trova in posizione di secondo piano rispetto agli altri Stati del Golfo come il Qatar, gli Emirati Arabi o l’Arabia Saudita che sono attori economici e politici molto in vista. E’ uno Stato che ha però un ruolo chiave in Medio Oriente grazie alla logica del buon vicinato sapientemente costruita negli anni. Sembra non esserci un solo Paese di quell’area del Mondo arabo che non abbia buoni rapporti con Muscat. La politica opposta a quella dei suoi vicini e la sua “neutralità” rispetto ai conflitti delle regione mettono il Sultanato in condizione di dialogare e mediare con tutti, Iran e Stati Uniti compresi. La linea neutrale è stata varcata una sola volta, nel 1990, dopo l’invasione del Kuwait da parte dell’Irak, quando l’Oman partecipò all’operazione “Desert Storm”. Membro del Consiglio per la Cooperazione nel Golfo (CCG) e della Lega Araba, il Sultanato non partecipa alla coalizione contro i ribelli Houti dello Yemen e non approva i bombardamenti dell’aviazione saudita. La chiave di questo atteggiamento è il Sultano Qabous. In carica dal Luglio del 1970, il Sovrano è stato maestro di pragmatismo: non avendo a disposizione l’Oman importanti ricchezze naturali, ma una posizione strategica di tutto rispetto (Oman controlla con l’Iran lo Stretto di Ormuz che concentra il 40% della produzione mondiale di petrolio), il Paese doveva a tutti i costi poter dialogare con tutto il Mondo, senza però essere imbrigliato in pesanti alleanze. Ricordiamo che l’Oman è il solo Paese Arabo a non aver rotto le relazioni diplomatiche con l’Egitto dopo gli accordi di Camp David e che il Paese mantiene contatti con l’Iran sciita, portando avanti una continua e discreta mediazione che lo ha visto coinvolto anche nel riavvicinamento tra Stati Uniti e Repubblica Islamica.
Il successo dell’Oman in termini di prevenzione nel fornire combattenti e “lupi solitari” alle reti jihadiste è un risultato molto importante. Far sì che i suoi giovani non si facessero contagiare dal canto delle sirene di Daesh è un grandissimo successo dovuto alla politica illuminata di Qabous che ha saputo creare lavoro, distribuire aiuti sociali e far sentire la sua vicinanza alla popolazione, superando anche le difficoltà creategli da una “piccola Primavera” nel 2011. Il Sultano Qabous, regista di questa politica è un Monarca visionario, esteta e… indubbiamente assoluto, ma sufficientemente illuminato per gestire situazioni storicamente ingestibili. Oggi si presentano molte incertezze sulla sua successione (è malato da tempo), solo un Sultano altrettanto illuminato potrà far si che l’Oman possa continuare ad essere la “Svizzera del Medio Oriente”. Chissà che gli Stati Arabi possano trarre qualcosa di buono alla luce di questo esempio, capire quanto il dialogo e la diplomazia siano fondamentali per prevenire ingerenze straniere negli affari interni, così come il dare ospitalità a tutti i gruppi religiosi possa evitare di concedere agli outsider opportunità di creare tensioni tra regimi e comunità storicamente emarginate.