La guerra mondiale “a pezzi”
Se la guerra è – per dirla alla Von Clausewitz – la prosecuzione della politica con altri mezzi, possiamo senz’altro rilevare il fallimento, in Medio-Oriente, di tutte le attività di mediazione passate e presenti. Le ragioni del loro naufragio risiedono in un amletico dilemma: quanto sia reale o meno per gli attori in gioco, diretti contendenti a parte, la volontà di costruire una pace stabile, a discapito delle ambizioni nazionalistiche di supremazia nel controllo mondiale delle risorse energetiche, di cui è ricca l’intera regione.
L’opinione pubblica inizia a convincersi del filo rosso che collega eventi bellici d’apparente carattere locale e s’accorge che, nella conflittuale frammentarietà della composizione etnico-religiosa mediorientale, inasprita dall’esistenza – per il mondo arabo, provocatoria – dello Stato d’Israele, s’innestano gli obiettivi economici e le lotte per il potere globale di due nuovi blocchi contrapposti. Con radici nella Cold War e ridisegnati in versione 2.0 sulla base degli attuali equilibri geopolitici e militari, gli odierni schieramenti antagonisti vedono invariabilmente leader gli USA, per il versante atlantico, e la Russia, per il versante orientale. Sovrapposti alla vigente crisi siriana, sono nettamente riconoscibili i vecchi pruriti da bipolarismo del secolo scorso, la diffidenza reciproca su cui, nonostante un successivo lungo periodo di distensione, non è mai davvero calato il sipario e l’esasperata competizione fra due titani divorati dalla conquista del ruolo d’incontrastato rex mundi.
La consapevolezza di una sostanziale parità delle forze in campo fu sufficiente, nel ventesimo secolo, a scongiurare un terzo conflitto mondiale; le parti s’affrontarono sotto traccia e mai allo scoperto, a colpi d’intelligence e nella costante apprensione di un sorpasso del nemico. Poi, dopo il crollo dell’impero sovietico e la disgregazione dell’unione dei paesi aderenti al Patto di Varsavia, gli Stati Uniti sono diventati gendarmi del mondo e principali esportatori di democrazia, incarico che hanno esercitato, nel bene e nel male, con grande determinazione, ovunque ritenessero fosse necessario e vantaggioso. Oggi, però, dalle parti del Cremlino si respira un clima di revanche: spiccano, in agenda, programmi espansionistici mai sopiti, come la recente annessione della Crimea, e repressioni di moti secessionisti mal digeriti, come nel caso della Cecenia, repubblica della Federazione Russa, percorsa da oleodotti e gasdotti di fondamentale importanza e teatro di sanguinosi scontri fin dal 1994.
Nell’attuale quadro internazionale, animata dalla volontà di tornare protagonista e arginare lo strapotere americano nel mondo, Mosca rialza la testa e non ha paura d’intraprendere vie divergenti da quelle indicate da Washington. Le strette di mano con Obama non hanno impedito a Putin di rispondere alle richieste d’aiuto di Assad, né lo hanno dissuaso dal colpire con incursioni aeree gli oppositori di Damasco, con il pretesto di danneggiare l’Isis e prevenire future spinte integraliste verso i confini russi. Il comandante della Marina russa, Viktor Cirkov, ha peraltro reso noto che, tra i vari obiettivi, il suo paese intende mantenere la base logistica siriana di Tartus, necessaria allo svolgimento di missioni internazionali antipirateria nel golfo di Aden. Giungono immediate le proteste degli americani, determinati a rimuovere il presidente siriano, accusato, secondo la versione ufficiale, di crimini umanitari contro la popolazione; in verità, sono più preoccupati – per loro stessa ammissione – di veder vanificati gli sforzi profusi dagli istruttori della CIA nell’addestrare le forze ribelli anti-governative, duramente scosse dai raid dei Mig russi.
A Mosca è addebitata anche la violazione dello spazio aereo turco, fatto che sta aggiungendo altra tensione nell’area, mentre negli Stati Uniti la condotta di Obama sulla questione siriana e sulla lotta al califfato islamico assume un profilo decisamente ondivago e poco chiaro, al punto che il capo di Stato Maggiore delle forze armate statunitensi, generale Martin Dempsey, ne ha pubblicamente contestato l’impostazione strategica, preclusiva dell’impiego di truppe a terra.
Nel frattempo, alla sconfortante assenza di politica estera da parte dell’Unione Europea, risponde la comprovata predisposizione francese all’interventismo solitario. Come già visto in Libia, Parigi bombarda un campo d’addestramento delle milizie islamiche nella Siria orientale; lo fa a protezione della propria sicurezza nazionale, senza consultare Damasco e senza un mandato ONU, contravvenendo – afferma Marija Zakharova, portavoce del Ministero degli Esteri russo – al diritto internazionale.
L’iniziativa russa in Siria ha avuto quantomeno il merito di risvegliare dal torpore l’Occidente, troppo cauto e inefficace nel contrastare l’avanzata delle bandiere nere dello Stato Islamico. In uno scenario dominato dall’avvento del terrorismo internazionale, in cui le ostilità non si manifestano più in scontri diretti fra Stati, ma nell’assorbimento d’ogni focolaio in un conflitto asimmetrico globale, abbiamo la sensazione di assistere ad una terza guerra mondiale combattuta “a pezzi”, tanto per citare una definizione di Papa Francesco. È superata ogni aristotelica unità di tempo, luogo e azione, e il genere umano, sulla rotta del caos totale, rischia un doloroso viaggio senza ritorno.