Istanbul, tensioni turche
La Turchia è la porta dell’Europa sull’Oriente. La delicata posizione di contiguità geografica con Siria, Iran e Iraq e le relazioni di “vicinato” con questi paesi sono elementi che non possono sottrarsi all’attenzione e all’interesse del mondo occidentale. Il contatto con regioni dai governi instabili, trafitte da millenarie lotte intestine di religione e da feroci scontri etnici e culturali e, tuttavia, ricche di giacimenti petroliferi e gas naturale, tanto necessari al fabbisogno energetico delle società avanzate, non può non influenzare la politica estera turca, collocando il paese al centro dei giochi internazionali di potere per il controllo sulle risorse locali.
Le attuali crisi politiche, sfociate in guerre civili e regimi abbattuti o da abbattere, hanno trasformato il Medio Oriente in una polveriera che scarica, di continuo e a lungo raggio, tensioni e paure. La Repubblica turca – passaggio obbligato per via terrestre di migliaia di profughi siriani e iracheni diretti, in cerca di salvezza, verso l’area mitteleuropea – vive, tra pressioni interne ed esterne, un periodo complesso e difficile.
Da tempo, il suo termometro indica livelli di democrazia piuttosto bassi e il Presidente Recep Tayyip Erdogan figura tra i maggiori responsabili di questa situazione. Di chiaro profilo islamico-conservatore, inizia il proprio mandato presidenziale ad agosto del 2014, dopo aver ricoperto, dal 2003, la carica di premier per undici anni consecutivi. Imprigionato nel 1998 per incitamento all’odio religioso, dopo il carcere, fonda l’AKP (Partito per la Giustizia e Sviluppo), a cui conferisce un indirizzo politico più moderato, divenendone leader indiscusso. Fautore dell’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, ha tuttavia progressivamente inasprito i rapporti col Parlamento di Strasburgo, critico per le dure repressioni durante le manifestazioni di protesta in Piazza Taksim, nel 2013 ad Istanbul, da parte delle forze dell’ordine della mezzaluna. Da quel momento, Erdogan non profonde sforzi rilevanti per ricucire il dialogo: ad aprile del 2015, nega il genocidio armeno di un milione e mezzo di vittime tra il 1915 ed il 1917, e, dopo i recenti attentati nel paese, sembra deciso a soffocare il crescente dissenso interno nei suoi riguardi con il classico pugno di ferro.
Determinato a silenziare ogni voce ostile, alla vigilia delle elezioni anticipate di domenica prossima, , Erdogan dispone il recente blitz della polizia nella sede di Istanbul del gruppo editoriale Ipek, accusato di legami col magnate e imam Fethullah Gulen, un tempo alleato, oggi suo principale nemico. Evacuati i dipendenti e ordinato il blocco delle attività di stampa e trasmissione, la gestione ordinaria del gruppo è ora nelle mani di amministratori nominati dal tribunale. I servizi in diretta dei media televisivi turchi hanno mostrato al mondo gli scontri tra agenti e sostenitori del gruppo, che, attraverso il controllo dei quotidiani Bugun e Millet ed i network Bugun Tv e Kanalturk, avversano la condotta del presidente; emblematica, la foto sui social della tessera insanguinata di un giornalista, pubblicata durante l’incursione.
Il modello Erdogan, improntato alla centralizzazione del potere nella figura unica di un redivivo “sultano ottomano”, non concede spazi alla libera circolazione del pensiero e dell’informazione ed è sempre prodigo di misure restrittive alle libertà personali dei cittadini dissidenti. D’altro canto, il presidente ha dichiarato guerra ai gravi atti di terrorismo che hanno recentemente scosso il paese: assalti alla sede dell’AKP, bombe contro un commissariato, spari sul consolato statunitense, azioni – queste – rivendicate da sigle poco convincenti dell’estrema sinistra, frutto dello scontro per il potere tra fazioni interne, accompagnate dal sospetto che siano però gestite in modalità allargata da attori internazionali impegnati su più tavoli e già coinvolti nelle caotiche vicende dell’intero scacchiere mediorientale.
Più di qualche osservatore sostiene l’interesse di Erdogan ad appoggiare occultamente l’Isis in chiave anti-siriana e anti-curda, creando enorme turbolenza sui piani russi di salvataggio del regime di Assad e d’utilizzo, come ai tempi della vecchia Unione Sovietica, del PKK curdo come spina nel fianco della Turchia. Per ovvia compensazione, Washington non interverrebbe con la debita fermezza su Ankara, a conferma di quanto lo Stato Islamico possa essere, per certi versi, funzionale al perseguimento degli obiettivi dell’amministrazione Obama nell’area. Se questa tesi dovesse rivelarsi esatta, l’attacco, ad esempio, al consolato americano potrebbe assumere le vesti di un avvertimento trasversale di Mosca a Washington, per scoraggiare tutte le sue attività “non ufficiali” in Medio Oriente.
Com’è intuibile, l’inestricabile intreccio tra interessi palesi e nascosti, opportunistiche alleanze e aperte rivalità è ormai preludio di una pericolosa partita sempre più estesa a livello mondiale.
Un Commento
Per Erdogan le prossime elezioni sono una questione di vita o di morte.
Farà di tutto per non finire impiccato.