Turchia: dopo il trionfo dell’AKP l’opposizione fa autocritica
Ancora un po’ frastornati per il colpo subito delle elezioni turche, i partiti di opposizione entrano in una fase di riflessione e di autocritica per tentare di capire il perché di questa gigantesca sconfitta.
Le elezioni turche sono state un vero terremoto per i partiti di opposizione. Come spiegare il maremoto del Partito islamo-conservatore che sfiora il suo risultato più importante dal 2011 portando a casa il 49,41% delle preferenze, quando appena lo scorso Giugno sembrava destinato ad un mesto futuro? Se il futuro Premier (ex Ministro degli Esteri, oggi Segretario dell’AKP), e altro grande vincitore di questa partita Ahmet Davutoglu, sul suo account Twitter (i social media sono stati “rivalutati” per questa occasione) vede in questo plebiscito la grazia Divina, i motivi di questa vittoria, loro, sono da cercare altrove.
Per spiegare questo successo, bisogna avere un buon perdente. Atteso dai sondaggi come uno dei principali beneficiari di questa votazione, il Partito socialdemocratico CHP ha deluso. Con 25,38% delle preferenze, non ottiene che due nuovi seggi in Parlamento. “Il Partito è bloccato nel suo vivaio elettorale, intorno al 25%, e non ha saputo attirare nuovi elettori, dobbiamo seriamente ripensare il nostro messaggio”, afferma sommessamente Aykan Erdemir, un membro del Partito di sinistra. Per quanto riguarda la vittoria senza appello dell’AKP, il motivo è chiarissimo per il navigato deputato: “sembra che l’escalation della violenza abbia fatto buon gioco al Presidente Erdogan e al suo vecchio Partito, l’AKP”. Dallo scorso Luglio, la Turchia è in effetti coinvolta da una nuova ondata di violenze tra le forze di sicurezza e i ribelli del PKK che somiglia pericolosamente agli anni di piombo che hanno insanguinato il Paese nel passato. “E il discorso della stabilità, sulle questioni di sicurezza, invocato dal Governo ha saputo sedurre gli elettori del Partito nazionalista MHP”, precisa Sinan Ulgen, ex diplomatico turco e Presidente del Center for Economics and Foreign Policy (EDAM).
Prova ne è il poco esaltante risultato della formazione di estrema destra che, con l’11,93% delle preferenze, perde la metà dei seggi rispetto al voto di Giugno. In seno al Partito, gli interlocutori sembrano fantasmi e si moltiplicano le voci di dimissioni del leader storico, Devlet Bahçeli, gigante della scena politica turca. Ultimo colpo di grazia: la roccaforte nazionalista di Osmaniye, nel sud del Paese, passa sotto controllo dell’AKP. La retorica “a tutta sicurezza”, predicata dall’AKP non ha avuto la meglio solo sui nazionalisti, ma ha catturato anche la frangia conservatrice e religiosa della popolazione curda, che ha raggiunto il Partito conservatore defluendo dal Partito HDP. Il Partito Democratico filo-curdo accusa infatti un netto passo in dietro sul tabellone dei risultati, lontano dal ripetere l’exploit elettorale del 30 Giugno 2015 quando ha superato con grande facilità lo sbarramento elettorale guadagnando 80 deputati in Parlamento. Un duro colpo per l’HDP che, al momento dello scrutina mento, si vedeva già scomparire dai banchi dell’Assemblea nazionale della Turchia. Se i danni sembrano oggi essere limitati, ciò non toglie che il boccone rimane molto amaro da mandar giù.. Il voto per il Partito, nelle regioni a maggioranza curda è globalmente in calo: meno 6% nella provincia di Diyarbakir, meno 5% a Mardin, meno 10% a Mus, solo per citare alcuni esempi. Selahattin Demirtas, il co-dirigente del Partito e astro nascente della classe politica turca, ha tentato di nascondere tutta la sua delusione cercando di trovare del positivo in questa sconfitta: “Siamo il terzo Partito della Turchia (per numero di seggi, ndr) e voglio ringraziare i nostri elettori”. E il nuovo eletto di Istanbul stempera il risultato rendendo omaggio alle vittime degli attentati di quest’estate a Diyarbakir, Suruç e Ankara: “Preferirei avere qui i miei amici, piuttosto che entrare in Parlamento”.
Ma superate le commemorazioni, il leader curdo passa all’attacco: “Queste elezioni si sono giocate alla pari. L’HDP non ha potuto fare campagna (in riferimento ai numerosi attacchi subiti dai suoi militanti, ndr), siamo stati il costante bersaglio dell’AKP”. Un discorso molto educato se paragonato ai propositi sentiti nelle roccaforti dell’HDP, nel sudest del Paese. “Ci sono stati centinaia di casi di brogli documentati attraverso il Paese, e soprattutto nella regione dei curdi”, affermano diversi deputati HDP originari di quelle provincie. All’unisono, i membri del Partito pro-curdo denunciano l’atmosfera deleteria creata dall’AKP e il Presidente Recep Tayyip Erdogan che alimentando le ceneri del conflitto con il PKK, non ha lasciato altra scelta agli elettori che il caos o lui. Per molti membri dell’HDP poi, le violenze perpetrate alla stampa hanno avuto un indiscutibile impatto su queste elezioni. Colpi di forza che hanno sensibilmente ridotto la visibilità dei media indipendenti nella Turchia di Erdogan (149° su 180 nella classifica della libertà di stampa) di fronte ad una stampa pro-governativa onnipresente e giudicata troppo clemente nei confronti del Governo. Malgrado ciò, l’HDP non cerca scuse e fa autocritica: lavorare sugli errori e vedere, tutti insieme, cosa non ha funzionato. Uno errore è già chiaro. Parte della responsabilità della sconfitta è da attribuire ai gruppi violenti, sulla falsariga del PKK o del suo ramo di gioventù urbana, gli YDG-H. Una questione di immagine che ha influito molto gli elettori conservatori curdi e i simpatizzanti turchi dell’HDP.
Anche tra i vincitori c’è stupore per questa “inattesa” vittoria” ottenuta in nome della “stabilità”. Gli osservatori dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce) si sono lamentati per il clima di “violenza” che ha avvolto la campagna elettorale e soprattutto per la pressione fatta da Governo sulla stampa indipendente. Durante una conferenza stampa ad Ankara, il deputato svizzero del Consiglio d’Europa Andreas Gross ha affermato che se il voto era stato “libero”, la campagna si era svolta in modo iniquo per i Partiti di opposizione. Malgrado questi punti oscuri, l’Unione Europea si era impegnata a lavorare con il futuro Governo turco. L’Europa ha bisogno della Turchia anche se sta virando alla “democratura”, definizione creata nel 1989 dallo scrittore ex iugoslavo Predrag Matvejevitch per rappresentare la deriva autocratica di un Paese, un ibrido tra democrazia( elezioni) e dittatura (imbrigliamento delle opposizioni e dei diritti).
Il contesto di guerra alle porte della Turchia ha, alla fine, aiutato Erdogan nel suo disegno: Come l’Ucraina per Putin.