La guerra serve per finire le guerre

Ho evocato, in una mia recente nota alle Agenzie, la vile aggressione di Pearl Arbor paragonandola a quanto accaduto a Parigi per gli effetti positivi, pur nella tragicità, che l’episodio ebbe sulla sconfitta della Germania Nazista. Fu quell’episodio orrendo perpetrato dal Giappone a far comprendere alla riluttante America che andava superato ogni indugio per entrare apertamente in guerra a fianco degli europei vittime della crudele bramosia Hitleriana.

Anche noi tutti dobbiamo, quindi, comprendere, al di là dei molteplici dibattiti che da tempo caratterizzano le analisi sul Califfato dell’ISIS, che siamo in guerra e non più oggetto di isolati attacchi definiti “terroristici” o di “lupi solitari”. Non sfugge più a nessuno che gli interessi dell’ISIS, sebbene ammantati di credo religioso, sono di potere da esercitare brutalmente sui territori conquistati o da conquistare, di potere economico con il controllo del petrolio nella loro Regione, di professione religiosa mistificatoria in antagonismo con quelle popolazioni o quei Paesi che, rifiutando la visione teocratica delle Istituzioni, sono considerati naturali avversari da annientare.

E’ giunto, quindi, anche se in ritardo come avvenne nella Seconda Guerra Mondiale, il momento di porsi alcuni principali obiettivi per evitare di soccombere. Il primo: intervenire con la forza della ragione e della diplomazia per porre fine all’atavico contrasto fra Sciiti e Sunniti che spesso ha caratterizzato la instabilità di Paesi e Popoli di religione prevalentemente Mussulmana. Il secondo: dar vita ad una Coalizione Internazionale, la più ampia possibile, non solo Occidentale, per una campagna militare sui territori del cosiddetto Stato Islamico che ponga fine agli orrori in atto e liberi le popolazioni dal fuoco incrociato dei miliziani e dei bombardamenti. Gli Americani lo fecero, pagando prezzi altissimi in perdite umane, in favore di una Europa martoriata, dei suoi abitanti oppressi dal Terzo Reicht. Lo dobbiamo fare anche noi oggi, per restituire vivibilità, democrazia a quanti, vittime di fanatici interpreti di un atroce Allah, credono invece in un Allah ben diverso da quello dei “tagliagole”. E lo dobbiamo fare anche per noi stessi, per la salvaguardia della Civiltà Occidentale caratterizzata da democrazia, liberta religiosa e laica, conquistata con il sangue dei nostri morti nel corso della Storia. Il terzo: bisogna avere chiari preventivamente gli scopi, i nuovi assetti territoriali ed istituzionali da porre in essere una volta vinta la guerra. Non possiamo ripetere lo stesso errore compiuto, a volte, di “vincere” la guerra e perdere la “pace”.

Per fare questo l’Europa deve ritrovare quell’unità ancora non perseguita a causa di interessi nazionali divergenti all’interno dell’UE; la Coalizione deve avere una visione strategica e non tattica; all’interno dei singoli Paesi le divaricazioni, i distinguo devono cessare; i dibattiti televisivi, gli organi di informazione, le analisi sociologiche devono produrre solo determinazione a sradicare ovunque l’orrore di cui si vanta l’Isis a danno di persone inermi ed innocenti. Divulgare, come sta avvenendo, la paura non giova ad alcuno se non al nemico. Immaginare di continuare o intensificare, come reazione, i bombardamenti aerei, dar vita a fiaccolate di protesta contro gli assassini o di solidarietà per le vittime e loro familiari, formalizzare dichiarazioni, per quanto sentite, di sdegno verso tanto orrore, significa non vincere le guerre dentro e fuori i propri confini nazionali.

Cerchiamo di capire e condividere la frase di Churchill: “La guerra serve per finire le guerre”. Con tutto quello che sta avvenendo e che è facile prevedere che avverrà, se non si reagisce adeguatamente, tale affermazione è cinica ma purtroppo è vera.

©Futuro Europa®

[NdR – L’autore dell’articolo è Vicepresidente nazionale dei Popolari per l’Italia e Membro Political Assembly PPE Bruxelles]

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