El Greco in Italia
Treviso – Ca’ dei Carraresi, con alcuni dei suoi affreschi appena restaurati, presenta fino al 10 aprile El Greco in Italia: Metamorfosi di un genio, coronando le celebrazioni del quarto centenario dell’anniversario della sua morte. L’esposizione è dedicata agli anni cruciali della trasformazione di El Greco (Candia, 1541 – Toledo, 1614), in particolare quelli italiani, dal 1567 al 1576.
Un nutrito comitato scientifico, con a capo Lionello Puppi, professore emerito di Ca’ Foscari e studioso del Maestro sin dal 1963, offre molteplici spunti inediti, indagando un periodo nebuloso per la scarsità delle documentazioni archivistiche. In mostra 25 opere autografe (con San Demetrio, la più integra tra le tre icone sinora conosciute, scoperta la scorsa fine estate), accompagnate da quelle di coloro che hanno influenzato il Suo lavoro tra cui Tiziano, Tintoretto, Correggio, Jacopo Bassano, lo Schiavone, Parmigianino, e in chiusa gli effetti prodotti su Picasso (in anteprima mondiale Les Demoiselles d’Avignon nel cartone preparativo per l’arazzo destinato alla collezione di Nelson Rockefeller) e Francis Bacon. Pareti nere, pannelli informativi a caratteri bianchi, spotlight drammatici e rare vetrine, conferiscono all’ambientazione la promessa di meravigliosi tesori, uno scrigno all’interno del quale il visitatore si muove in avanscoperta.
Nato Dominikos Theotokopoulos, cresce sull’Isola di Creta, allora “stato-da-mar” della Repubblica Veneta, come dunque cittadino veneto. A Venezia, si sposta all’età di 26 anni, dove approda in pieno tardo Cinquecento. È il fautore di una sintesi estetica fra la cultura greco-ortodossa e quella cattolico-romana, unendo la preziosità aurea bizantina con il realismo del Rinascimento e le arditezze del Manierismo. Le immagini delle icone sacre dell’Europa orientale, senza spazio né tempo, immobilizzate nella ieraticità della loro posa, vengono tradotte nel linguaggio del tardo Rinascimento italiano, e soprattutto veneto.
È proprio il “periodo italiano”, quello più denso di mistero e buchi narrativi nella vita. Scandire le tappe del Suo percorso di trasformazione, è proprio lo scopo dell’esposizione trevigiana. Significativo è l’inventario della Sua biblioteca toledana, in cui sono confluiti, libri acquistati, letti e postillati in Italia, che rivela che El Greco non mancava di un’educazione archeologica, letteraria, estetico-filosofica raffinata, cartina tornasole di scelte tematiche e iconografiche abbastanza eccentriche. Nelle sue tele, sanando in parte le lacune storiografiche, l’artista si racconta e apre la porta a personaggi reali.
A Candia (odierna Iraklion), già opera nel 1563 e nel 1566, con la qualifica professionale di “maistro” e di “sgourafos”, ma non sappiamo se, alla pratica tradizionale bizantina di pittore di icone, accompagnasse, come altri artisti veneto-cretesi suoi contemporanei (Giorgio Klontzas e Michele Damaskinos, tra gli altri), sperimentazioni di “maniera occidentale” o se, dei due modi, tentasse già una contaminazione, utilizzando incisioni. Si trasferisce, poi, nella Capitale dell’Isola . Un giovane El Greco entra in contatto diretto con i lavori dei maestri veneti.
Nell’autunno del 1570, il pittore è a Roma, dove si è già fatto conoscere come ritrattista, ma ignoriamo presso chi fosse stabilito: il miniatore croato Giulio Clovio, allora al servizio dei Farnese, designandolo allievo di Tiziano, lo raccomanda, con lettera del 16 novembre 1570, al Cardinale Alessandro Farnese che lo accoglie, fino al licenziamento a metà luglio dell’anno successivo. Per poter continuare a lavorare, il successivo 18 settembre, s’inscrive alla corporazione di mestiere come miniatore. Di questo soggiorno, risulta fondamentale la lezione michelangiolesca, trasmessa dagli Zuccari, dal Sermoneta e dal Muziano.
Ed è, quindi, il silenzio sino al 1577, quando, artista maturo quale si trova a essere, è per certo insediato in Spagna: all’incirca quattro anni di vuoto impongono la domanda se Dominikos li abbia trascorsi a Roma o sia rientrato a Venezia. S’è anche supposto, che risalendo la penisola avesse potuto transitare per Parma, città natale di Correggio e Parmigianino, che nell’edizione delle Vite di Giorgio Vasari da lui posseduta e giunta fino a noi, dichiara di ammirare sommamente.
Se la finalità dell’icona consiste nella rappresentazione dell’invisibile, previo annullamento d’ogni riferimento temporale, in El Greco la rappresentazione del rapporto spazio-tempo è stata interessata da un’accelerazione incredibile, operata attraverso dinamismo, luce e colore. È stato capace di trasformare l’esperienza delle tarde derive della cultura figurativa orientale di Bisanzio in un evento unico per l’intera pittura europea. La matrice tardo-romana ha funzionato da trait d’union, come radice comune per l’arte bizantina e quella veneta. El Greco diventa, a sua volta, matrice per le avanguardie tra ‘800 e ‘900, in lui Picasso riconosce il semen della propria visione cubista.