Putin, le prove dei rapporti di Erdogan con il Califfato

Scorrono i giorni e si manifestano con maggior evidenza le ragioni per le quali, intorno al focolaio siriano, non si formi una coalizione occidentale dalla fisionomia ben definita, in funzione anti-Isis. Le cronache registrano gli interventi militari a spot di questo o quel paese in una cornice bellica assai frammentata e disomogenea. Tutto sembra convergere verso la disorientante idea di una guerra mondiale discontinua e obliqua, risultato della somma dei conflitti irrisolti in Medio Oriente e Nord Africa e prodotto esponenziale della concatenazione dei loro letali effetti. Eppure, è davvero il pretestuoso scontro di civiltà e religione, armato ad arte per esporre al verdetto dell’opinione pubblica il pericoloso fanatismo islamico, il motivo per cui l’Occidente si sente chiamato in causa? O, forse, è adesione all’ennesima inderogabile “esportazione” di democrazia? La storia ci insegna che le guerre si combattono per questioni economiche, innanzi alle quali la politica ossequiosamente s’inchina. Punto. Il Califfato è divenuto entità territoriale nelle regioni in cui alcune potenze occidentali avevano interesse ad abbatterne i dittatori. E questo è un fatto. Nei territori occupati, oggi, le milizie dell’Isis sono entrate in possesso di petrolio che commerciano, senza tirare troppo sul prezzo, in cambio di armi e soldi per finanziare le proprie guerre d’espansione.

Secondo Putin, il presidente turco Erdogan, in combutta con il figlio Bilal, intrattiene con l’Isis rapporti d’affari relativi al traffico di oro nero. I miliziani ne controllano i pozzi, ma non gli oleodotti per il suo trasporto fino ai porti. Hanno ovviato all’inconveniente, creando un proprio oleodotto “su gomma”: interminabili convogli di autocisterne che, in fila indiana, portano enormi quantitativi di petrolio verso il confine turco. La società di lavori pubblici e trasporto marittimo presieduta da Bilal, con l’appoggio del genero nominato ministro dell’Energia, gestisce un traffico di 200.000 barili al giorno, che frutta ai jihadisti circa due miliardi di dollari all’anno. Come contropartita, la Turchia funge da corridoio d’ingresso per i foreign fighters diretti in Siria e provvede al transito, oltre confine, di un consistente flusso di armi, munizioni e mezzi militari. Il vice capo di Stato Maggiore russo, Serghiei Rudskoi, ha confermato tre principali direttrici seguite dai convogli verso il suolo della mezzaluna: una rotta occidentale che punta agli scali marittimi turchi sul Mediterraneo, una settentrionale che porta alla raffineria di Patma e, infine, una orientale che conduce ad una grande base strategica presso la città di Zhizdra. Parte del petrolio è riservata al consumo interno, altra parte è commerciata con l’estero per la raffinazione.

Non possiamo non cogliere, nella sequenza dei fatti che hanno provocato tensioni tra Mosca e Ankara, l’ambiguità delle iniziative turche: i russi, per primi, bombardano un convoglio di autobotti zeppe di petrolio, infliggendo un duro colpo al presunto business criminale del “Sultano” e danneggiando la principale fonte di finanziamento jihadista; tre giorni dopo, Erdogan ordina deliberatamente di abbattere un caccia Sukhoi Su 24 nei cieli di Latakia, a ridosso del confine turco-siriano; Mosca cancella gli accordi per la realizzazione di un gasdotto che attraversi la Turchia e minaccia ritorsioni; Erdogan non si scusa per l’atto ostile e Putin lo accusa di essere un sodale dell’Isis, con cui condivide il traffico illecito di petrolio; il presidente turco taccia di infondatezza le dichiarazioni russe, forte del rassicurante sostegno statunitense, e rilancia con una plateale offerta di dimissioni, qualora gli saranno contestate prove inconfutabili; per tutta risposta, il Cremlino mostra filmati sui convogli di greggio e il loro tragitto verso la Turchia e divulga altre immagini che documentano il flusso inverso di automezzi per il trasporto militare carichi di armi. Putin rincara la dose, precisando che il jet russo colpito sul confine, era intento a riprendere video attestanti gli illeciti rapporti di scambio tra Turchia e Isis.

Nel frattempo, il Segretario Generale della Nato, il norvegese Jens Stoltenberg, invita il Montenegro a divenire il terzo stato balcanico, dopo Croazia e Albania, a entrare nell’Alleanza Atlantica; l’allargamento Nato verso est è vissuto da Mosca come un tentativo di isolare la Federazione Russa sul piano politico e militare internazionale. Sullo sfondo, si staglia dunque nitida l’antica contrapposizione da Cold War fra l’Orso russo e lo Zio Sam, laddove i pomi della discordia sono rappresentati da Assad, la sua governance in Siria e l’individualistico interesse dei singoli paesi all’accaparramento di risorse energetiche altrui.

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