Scompare Gelli portando con sé molti misteri d’Italia

La scomparsa, all’età di 96 anni, di Licio Gelli, controverso personaggio della storia repubblichina e repubblicana d’Italia, segna forse anche una definitiva archiviazione dei piccoli e grandi misteri che hanno attraversato il Paese nel secolo scorso, in particolare tra gli anni ’70 e ‘90. La sua figura è stata accostata dai media all’immagine di regista occulto, burattinaio o Grande Vecchio che, da dietro le quinte, dispone del funzionamento d’interi apparati istituzionali, influenzando accadimenti e politiche decisionali nella conduzione dello Stato. Non sappiamo a quale livello di verità tale profilo corrisponda, certo è che l’alone di uomo che esercita il potere nell’ombra, così come gli fu universalmente attribuito, a lui non dispiaceva affatto, né ha mai cercato intenzionalmente di sfatarne il mito. Anzi, i modi discreti, riservati e sibillini con cui amava presentarsi e proporsi ai suoi interlocutori non fecero che alimentare e consolidare l’idea del grande manovratore, cui è sufficiente sussurrare e suggerire per essere obbedito.

E’ peraltro impossibile scindere la persona di Licio Gelli dalla Massoneria. Affiliato al Grande Oriente d’Italia, Ordine iniziatico in cui fece regolare ingresso nel lontano 1961, divenne in seguito espressione e artefice delle derive di parte di esso tanto che lo stesso GOI ne prese poi le distanze con la sua espulsione. Si fece presto notare per intraprendenza, capacità di pianificazione e predisposizione a sviluppare contatti di alto rango, soprattutto in ambienti politici – data la sua fede fascista – smaccatamente anticomunisti. Acquisì gran credito redigendo ed esponendo ai dignitari dell’Ordine uno studio, in cui illustrava le vie per restituire alla Massoneria il peso storico e il ruolo da protagonista avuti nella società civile dell’Ottocento; fra le strategie vincenti, il reclutamento di personalità di spicco e uomini di potere, attività che il, di lì a breve, il futuro Venerabile sapeva svolgere con grande maestria. Fu, quindi, indirizzato alla Loggia P2, caratterizzata – come riportato dalle cronache – dal fatto che gli iscritti fossero “iniziati a fil di spada”, in forma riservata e senza figurare negli elenchi ufficiali dell’anagrafe massonica. Sfruttando una vasta rete personale di contatti, favorì l’afflusso nella Loggia “coperta” di politici, burocrati, giornalisti, finanzieri, imprenditori, vertici delle forze armate e dei servizi segreti, tutti inseriti in una lista custodita privatamente ed esclusivamente dallo stesso Gelli.

Nel 1971, assunse il controllo della P2 e la trasformò in una sorta di cellula autonoma, sottraendola – di fatto – alla vigilanza del Grande Oriente e causando – in seno all’Ordine – una profonda spaccatura tra sostenitori e denigratori dei suoi metodi e scopi operativi. La Loggia aveva un’impronta di chiara vocazione “atlantista” e costituiva, in primo luogo, un argine all’avanzata comunista in Italia, considerata porta d’Europa e teatro strategico nella contrapposizione tra i paesi occidentali membri della Nato, sotto l’egida statunitense, e quelli dell’Est aderenti al Patto di Varsavia, nell’orbita dell’Unione Sovietica. Fornì ai fratelli un programma, denominato Piano di Rinascita Democratica, che prevedeva la penetrazione dei piduisti nei gangli vitali dello Stato, per riformarne – con una svolta autoritaria – gli assetti dei vari comparti istituzionali e centri di potere. L’azione avrebbe dovuto investire i partiti politici, la stampa, i sindacati e, in una fase successiva, governo, parlamento e magistratura. Rientravano negli obiettivi, con l’impiego di adeguato sostegno finanziario, la revisione della Costituzione (tra le modifiche, l’elezione del Presidente del Consiglio da parte della Camera dei Deputati all’inizio di ogni legislatura, con suo rovesciamento solo attraverso l’elezione del successore); la creazione di un sistema politico bipolare; la responsabilità civile e la separazione delle carriere dei magistrati; la riduzione del numero di ministri, sottosegretari e parlamentari; la diminutio del Senato ad organo di rappresentanza regionale; la limitazione del diritto di sciopero dei lavoratori e l’indebolimento dei sindacati; l’abbattimento del monopolio sull’informazione da parte della Rai e il via libera a nuove emittenti radio-televisive sul territorio, coordinate – insieme alle testate giornalistiche – da un’agenzia centrale per la stampa.

Diversi punti del piano, coincidenze o meno che siano, hanno poi trovato parziale attuazione negli anni o permangono stabilmente nell’agenda del dibattito politico: bipolarismo, abolizione dell’articolo 18 sul lavoro (che priva i sindacati di un concreto strumento di pressione nei confronti del Parlamento), libertà d’antenna, responsabilità civile del giudice (realizzata) e separazione delle carriere in magistratura (in cantiere), fine del bicameralismo perfetto con riforma in senso “regionalistico” del Senato. Evidentemente, il piano rifletteva anche una visione, per certi versi, liberale; tuttavia, l’interferenza con le procedure democratiche per il conseguimento degli obiettivi fu tale, da connotare come marcatamente eversiva l’attività del Venerabile e della Loggia e rendere necessaria l’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta, presieduta da Tina Anselmi. Il nome di Gelli s’incrocerà più volte con fatti inquietanti della storia d’Italia: ricordiamo il tentato golpe Borghese, diversi attentati terroristici (fu condannato per depistaggio delle indagini sulla strage alla stazione di Bologna, nel 1982), i casi Pecorelli, Sindona, Calvi e Moro. Da Villa Wanda a Castiglion Fibocchi, nell’aretino, dove era solito ricevere personaggi assai influenti, l’uomo che fu consigliere economico dell’Argentina e amico del Presidente Peròn gestiva un autentico potere parallelo, che ha travolto, nel suo crollo, un segmento rilevante della classe dirigente della Prima Repubblica.

Lungi dall’azzardare giudizi in questa sede, possiamo quantomeno affermare che Gelli è stato un prodotto del suo tempo e in quel preciso quadro storico andrebbero valutate le sue azioni: erano gli anni della Guerra Fredda, del piombo delle P38, della strategia della tensione e di Gladio. Per lui, lo stragismo in Italia serviva a destabilizzare e consentire, tramite la leva della paura, la legittimazione di un potere statale forte. Ha usato la Massoneria come canale diplomatico sotterraneo, osservato la regola di operare in silenzio e perseguito la finalità di governare senza essere al governo: elementi che gli valgono il plausibile ruolo di deus ex machina rispetto ai tanti interrogativi che circolano tuttora sui cosiddetti misteri italiani. Misteri che, post mortem dell’ex Venerabile, resteranno probabilmente tali.

Dopo lo scoppio dello scandalo, il Grande Oriente d’Italia prese subito, in modo determinato e risoluto, le debite distanze dalle sue attività e da quelle dei piduisti. L’ex Gran Maestro Gustavo Raffi, durante il suo lungo mandato alla guida dell’Obbedienza di Palazzo Giustiniani, ricordò in più occasioni il ruolo di tempio dell’antifascismo militante sostenuto, durante la dittatura del Ventennio, dalla Massoneria italiana e, a dimostrazione del ripudio dell’operato di Gelli, avviò l’Istituzione di cui era a capo verso un processo – tuttora in essere con il suo successore Stefano Bisi – di glasnost e di apertura all’opinione pubblica, teso a fugare ogni generalizzato tentativo di demonizzazione, grazie all’impiego dello strumento culturale come terreno comune d’incontro e di reciproca conoscenza.

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