Spagna ingovernabile?
Le elezioni spagnole hanno prodotto una specie di caos. Un commento forse un po’ impietoso: sembrano lontanissimi i tempi in cui gli spagnoli si vantavano della loro stabilità, della loro impetuosa crescita, della loro posizione nel mondo (specie in America Latina) e guardavano all’Italia quasi dall’alto, proclamando che l’avrebbero presto superata. Ah, la hubris, quanto male fa!
Il solo aspetto positivo sta nel fatto che i Popolari, pur perdendo milioni di voti, restano il partito più votato e, con 123 deputati, sono la forza parlamentare senza la quale è quasi impossibile formare una maggioranza. Altro lato positivo è che il PSOE resta il secondo partito e il populista Podemos (in molte cose simile ai nostri grillini) è confinato al terzo posto, tuttavia con un rispettabile 20%. Il lato negativo è che, con l’attuale conformazione del Parlamento, pare quasi impossibile formare un governo di maggioranza. Sulla carta, le combinazioni possibili sono estremamente limitate. Popolari e centristi, insieme, hanno 163 seggi, 13 meno dei 176 necessari. Socialisti e Podemos insieme non bastano, per cui avrebbero bisogno, per una maggioranza risicatissima, di allearsi cogli indipendentisti catalani e baschi. Ma, mentre il leader di Podemos sostiene un referendum in Catalogna, i socialisti (come una gran parte degli spagnoli non catalani) restano contrari alla separazione. Podemos chiede inoltre una riforma costituzionale, e un cambio della legge elettorale in senso proporzionale puro, che né PP né PSOE possono volere. Infine, Podemos ha – come alcune forze in Italia e altrove – un atteggiamento antieuropeo, non condiviso dai socialisti. Ricordiamo, per amore della verità, che la Spagna i suoi problemi se li è provocati da sola ed è stata l’Europa, con un intervento di 40 miliardi di euro, a salvare il suo sistema finanziario e creditizio.
In Spagna, si proclama, è finito il sistema dell’alternanza tra due partiti, che, dicono i critici, fa sí che i due, al di là della lotta politica, siano in sostanza complici nel mantenimento di un sistema di privilegi per la “casta”. Sarà vero, ma fa un po’ sorridere vedere che ciò è considerato come una grande conquista anche da parte di quelli che, non molto tempo fa, a destra come a sinistra, vedevamo nel bipolarismo/alternanza la regola somma della democrazia.
Quali le ragioni del terremoto spagnolo? Una politica e una tecnica. Quella politica affonda le radici nella profonda crisi economica e dell’occupazione, scoppiata sotto il governo socialista di Zapatero e tuttora dolorosamente sentita dagli spagnoli, e anche in alcuni scandali che hanno afflitto il PP in questi ultimi anni; quella tecnica sta nella legge elettorale. Ho scritto più volte, e ripeto ora, che, se si vuole un sistema bipolare con alternanza, il solo sistema utile è quello uninominale a doppio turno, vigente in Francia e che Oltralpe ha assicurato quasi sessant’anni di stabilità/alternanza e ha fatto le sue prove anche nelle recenti regionali, tenendo fuori il Fronte Nazionale. La Spagna ha invece un sistema semi-proporzionale con correttivi, che a un certo momento ha persino costituito un riferimento per la nuova legge elettorale italiana. A suo tempo, scrissi quello che ne pensavo, e il mio giudizio resta negativo. Ma per fortuna l’Italicum, tra tante stranezze e rischi di incostituzionalità, prevede comunque il ballottaggio, che alla fine produce inevitabilmente un vincitore e una maggioranza. Ha ragione Matteo Renzi a ricordarcelo e a trarne vanto. Meglio sarebbe stato se avesse scelto la strada del sistema francese, che il PD aveva a un certo punto adottato. Non lo fece soprattutto per mantenere l’intesa con Berlusconi. Si è visto com’è andata a finire.
Che succederà ora in Spagna? Sulla carta è possibile una “Grande coalizione” sul modello tedesco. Ragioni ce ne sarebbero a bizzeffe: far fronte alla crisi catalana, far uscire il Paese dalla crisi ecomica ed occupazionale, bloccare riforme dissennate, mantenere la Spagna ancorata all’Europa. Ma le prime dichiarazioni degli esponenti socialisti sembrano precludere questa possibilità, e il giovane Re non ha l’esperienza e l’autorità necessarie per imporla, come fece Giorgio Napolitano con le “larghe intese”. Resta la possibilità di un’astensione dei deputati socialisti che permetta ai Popolari di formare un governo di minoranza. Ma sarebbe un governo debole ed esposto a tutti i venti; ben diverso da quello che di cui la Spagna ha assoluto bisogno, ora più che mai. Comunque, qualsiasi intesa tra PP e PSOE potrebbe forse comportare una passo indietro personale di Mariano Rajoy. Avrebbe il buon senso e la generosità di farlo? La terza ipotesi (se si ritiene improbabile quella di una coalizione di sinistra con gli indipendentisti, il cui prezzo sarebbe la fine della Spagna unita) sono ovviamente nuove elezioni. Le quali, peraltro, risolvono in genere ben poco.
Siamo, comunque, all’inizio di una lunga e difficile fase di trattative, che ricorda quella succeduta alle elezioni del febbraio 2013 da noi, senza però un Napolitano a fare da referente e da arbitro. Auguriamoci che alla fine una soluzione percorribile sia trovata. L’Europa affronta gravissime sfide. Un periodo di ingovernabilità e di incertezza in uno dei grandi Paesi membri costituisce un serio problema per tutti.
Chi da noi gioca allegramente al massacro, chi cerca di dare spallate al governo in carica, dovrebbe rendersene conto: questo tipo di lotta dissennata porta acqua ai populismi capaci solo di produrre disastri. Dovrebbe, ma ci spero poco.