Perché la politica torni ad essere vocazione, missione

Perché oggi assistiamo a dibattiti politici sempre più deserti di partecipazione e a movimenti politici che più che a delle vere e proprie comunità assomigliano sempre più a dei casting dove trovare il cittadino con l’x-factor per vincere le elezioni? La risposta è semplice e diretta: si è sostituito il ruolo di garanzia e rappresentanza delle istituzioni che fino a poco tempo svolgeva la politica con l’immediatezza e la voracità (adatta all’imperversare incontrastato della globalizzazione e della digitalizzazione) della finanza e della logica dei mercati monetari che oggi fungono da pilastro degli equilibri socio-economici mondiali.

La parabola politica del premier Renzi ne è un fulgido esempio: dopo aver svolto funzioni amministrative come presidente della provincia prima e sindaco poi ha deciso di lanciare un’opa (offerta pubblica di acquisto) sul partito democratico attaccando la cosiddetta ‘premiata ditta’ Bersani, D’Alema & Co. Operazione sintetizzata dall’hastag estremamente vincente e convincente della rottamazione. Ma rottamare cosa e per affermare che cosa? Le azioni del nuovo segretario politico del Pd declinano con precisione la riposta a questa domanda: caduta per decisone interna al Pd del governo Letta (espressione dello stesso partito), formazione di un nuovo esecutivo nominato dal Capo dello Stato guidato dal neo eletto segretario del Pd e azione legislativa incardinata sulla logica delle maggioranze variabili (a seconda delle tematiche al voto in Senato, dove i numeri del governo ballano periodicamente, Renzi tende a mettere in campo alleanze o con Forza Italia, o con il Movimento 5 Stelle o con la sinistra radicale). Il tutto sfruttando abilmente il ricatto del voto anticipato per creare turbative ed intimidazioni ai parlamentari pronti a tutto pur non di non abbandonare il proprio seggio prima della scadenza naturale della legislatura.

Una strategia degna della peggiore politica di palazzo altro che rottamazione: non si intravede un briciolo di democrazia reale, di coerenza con il voto dei cittadini e di coloro che si sono prodigati per portare il proprio leader a vincere le elezioni primarie. Conferma di questo la abbiamo dalle prime file dell’esecutivo e delle principali amministrazioni elette nell’ultima tornata elettorale: tutte figure provenienti da correnti o partiti antagonisti al renzismo duro e puro, asserviti al nuovo ‘capo’ in una logica di do ut des davvero triste e sconfortante. Non a caso i renziani della prima ora, ad eccezione della fedelissima Boschi, sembrano essersi dispersi nelle nebbie della politica della Terza Repubblica. Fare politica ormai sta diventando un mestiere, importante ma non decisivo in senso assoluto, dove poter tutelare e manovrare interessi economici e sociali. Non è un caso che dietro alle nomine di ministri strategici non si avvertano più nel dibattito politico scontri o dissapori interni ai partiti tali da bocciare una candidatura o favorirne un’altra: si parla solo di Fondo monetario internazionale, Banca centrale europea, Confindustria e mercati in genere come spoil system dietro una nomina rispetto ad un’altra. Questo introduce nel nostro paese il meccanismo delicato e complesso delle lobby (già operante negli Stati Uniti d’America) ma senza una vera e seria regolamentazione. Ma delle istituzioni così piacciono al paese, agli italiani? No, e di questo ne abbiamo l’esatta conferma dal forte assenteismo elettorale e dal voto a forze politiche di rottura come il Movimento 5 stelle.

In alternativa cosa c’è sullo scacchiere della politica nazionale? Nulla. Solo piccoli e meritevoli tentativi di recuperare una tradizione politica autenticamente popolare che però si scontrano ogni giorni con il dramma reale del consenso. Ma cosa serve perché una presenza popolare capace di essere termometro del livello di disagio dei ceti produttivi del paese possa tornare ad essere forza autorevole, sia nei numeri che nelle proposte? Occorre ripartire dalla visione olivettiana di comunità concreta; Renzi è riuscito nella propria operazione di potere grazie a due fattori: la sempre più calante affluenza al voto (ragion per cui procrastina sempre più avanti in estate le scadenze elettorali) e l’ancora vivo sentimento di appartenenza ideologica al partito democratico da parte dei propri elettori in quanto partito detentore di un eredità storica della sinistra italiana. L’analisi del voto all’elezioni europee conferma questa analisi. Dopo il crollo della Democrazia Cristiana per i Popolari la presenza si è ridotta in un sostegno alla proposta accattivante e vincente di Silvio Berlusconi che, come tutti i leader carismatici, ha un inizio e una fine.

Ora occorre riprendere in mano la nostra storia ed inserirla nel contesto attuale: abbiamo generazioni di giovani che su alcuni temi fortemente sentiti come urgenti dalla popolazione si stanno muovendo con un forte impegno civile apartitico. Penso, ad esempio, al tema della difesa della famiglia naturale, al tema della riqualificazione del mercato del lavoro attraverso meccanismi di maggiore tutela contrattuale per chi entra nel mondo del lavoro e vuole costruire una famiglia, al problema impellente di un sistema bancario incapace di asservire ai bisogni reali dei cittadini e troppo spesso orientato a business commerciali pericolosi e dannosi fino ad arrivare all’annosa questione dell’integrazione dove non si vuole affrontare il problema partendo dal presupposto che le leggi ci sono e vanno applicate. Su questi punti un movimento spontaneo di popolo, di gente reale e non virtuale c’è: come politica non dobbiamo strumentalizzarlo o usarlo a fini elettorali, ma abbracciarlo e sostenerlo affinché possa generare quella che Papa Benedetto XVI ha definitivo ‘una nuova generazione di cristiani impegnati in politica’. Ripartiamo da qui, dal rendere queste battaglie civili e laiche il simbolo di un rinnovato vigore di partecipazione popolare: tessiamo le fila del dialogo tra tutte queste realtà (come avvenne con l’Opera dei Congressi nella fase precedente alla nascita del Partito Popolare Italiano), facciamo sì che siano capaci di generare in ogni territorio una comunità sociale e di impegno civile capace di incidere nella vita reale delle persone. A quel punto, il protagonismo all’interno delle istituzioni repubblicane non sarà più un gesto dovuto ma un passaggio imprescindibile.

Per realizzare tutto ciò occorrono luoghi in cui incontrarsi, momenti in cui confrontarsi e capirsi: ma soprattutto conoscersi e ricominciare a stimarsi reciprocamente. Per queste ragioni ad Orvieto, insieme a tanti amici, non si è dato vita ad un partito ma ad un coordinamento. Il 2016 sarà l’anno in cui la politica dovrà ancora di più piegarsi ad occasione di incontro per tutte queste realtà popolari affinché possano nascere in ogni città d’italia coordinamenti spontanei ispirati ai valori della nostra storia incardinati in un testo: quello della dottrina sociale della Chiesa. Le elezioni amministrative, in tal senso, saranno l’occasione per testare (con umiltà e senza alcuna velleità) la capacità di rappresentatività reale della nostra gente. Sara il primo tentativo con cui riavviare un nuovo processo  di partecipazione democratica. Con un obiettivo chiaro e forte: la politica torni ad essere vocazione e missione e non più un semplice e ben pagato posto di lavoro. Lo dobbiamo alla nostra gente, ma prima di tutto a noi stessi.

©Futuro Europa®

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