Taxi Teheran (Film, 2015)
Jafar Panahi (1960) è uno dei più importanti intellettuali iraniani che con il suo lavoro di attore, regista e sceneggiatore cerca di denunciare i limiti di un regime dittatoriale. Allievo di Abbas Kiarostami – che sceneggia il suo esordio ne Il palloncino bianco (1995) – subisce le conseguenze della non omologazione al potere dominante, tra periodi di prigionia e divieti di esercitare l’attività di regista. I suoi film vengono premiati dalla critica, anche se poco spettacolari e più vicini al teatro che al cinema, ma sono importanti per le cose che denunciano. Tra i suoi lavori ricordiamo Lo specchio (1997), Il cerchio (2000) e Un certain regard (sceneggiato da Kiarostami e censurato in Iran). Offside (2006) è una commedia grottesca di denuncia, dalla parte delle donne in una società che le emargina. Panahi mostra l’inventiva di un gruppo di donne intenzionate ad assistere a una partita di calcio – in Iran è proibito! – travestite da uomini.
Panahi non si limita a scrivere cinema di denuncia, scende in piazza, al fianco dei movimenti di protesta, viene arrestato e condannato a sei anni di reclusione, quindi rilasciato ma con il divieto di viaggiare all’estero e di fare cinema per vent’anni. Panahi non si arrende e gira in clandestinità: tra le mura di casa Closed Curtain (2013) e a bordo di un taxi Taxi Teheran (2015), rispettivamente Orso d’argento e d’oro al Festival di Berlino. La presentazione del regista era dovuta. Un pubblico avvezzo alle pieraccionate natalizie, ai riti da Star Wars e alle commedie inutili del cinema italiano dovrebbe essere consapevole che è importante che esistano registi capaci di usare il cinema come strumento culturale.
Jafar Panahi gira Taxi Teheran in un lunghissimo piano sequenza, camera fissa dentro al taxi per registrare dialoghi teatrali tra passeggeri che si avvicendano a bordo del mezzo. Niente a che vedere con l’inutile Il tassinaro (1983) o Un tassinaro a New York (1987) di Alberto Sordi, vere e proprie fiere del luogo comune, anche se lo schema narrativo è identico. Panahi interpreta il conducente del taxi che incontra varia umanità: un borseggiatore che condivide i metodi repressivi del governo, una donna che vorrebbe una società più giusta, un uomo in fin di vita che detta un testamento, uno spacciatore di film proibiti (persino Woody Allen!), la nipotina aspirante regista, due donne che devono compiere un rito prestabilito e un vecchio amico derubato che ha deciso di non denunciare i suoi aggressori. La macchina da presa parte in soggettiva con il taxi che percorre le strade di Teheran e chiude con identica soggettiva immortalando l’impresa di due uomini dei servizi segreti che la strappano via dal cruscotto per impedire la realizzazione del film.
Docu-fiction, certo, ma tutta recitata, con uno dei personaggi che a un certo punto scopre il gioco e riconosce il regista, storia che non è una storia, sceneggiatura neorealista improntata al pedinamento zavattiniano dei personaggi e alla scoperta delle loro esistenze marginali. Taxi Teheran è uno spaccato veritiero di cosa è diventato l’Iran, un luogo dal quale fuggire, perché non c’è differenza tra la piccola galera con le sbarre e la grande galera del mondo circostante.
Film che non ha titoli di testa e di coda, interpretato da non professionisti che non vengono citati per timore di rappresaglie. Il solo a metterci la faccia e il nome è il regista tuttofare, autore di un montaggio nervoso e sincopato e di una fotografia sporca. Leggete Persepolis di Marjane Satrapi, dopo aver visto questo film, guardate l’omonimo lungometraggio a cartoni animati. Panahi e Satrapi sono le due facce della stessa medaglia: il primo ha scelto di restare e combattere per la libertà dell’Iran, la seconda ha deciso per l’esilio. Scelte difficili entrambe, da non giudicare ma da rispettare, per il coraggio che dimostrano nello stigmatizzare il volto repressivo del potere.
[NdR – L’autore dell’articolo ha un suo blog “La Cineteca di Caino”]