Migranti, UE sull’orlo d’una crisi di nervi?

L’ondata migratoria senza soluzione di continuità, che attanaglia e spaventa l’Unione, ha ormai assunto i connotati di un’invasione. Sul tema, in cima alla lista dell’agenda politica, riteniamo doveroso un veloce riepilogo, tanto per non dimenticare da dove si è partiti e dove si rischia di arrivare.

Il fenomeno, cresciuto esponenzialmente nell’ultimo anno, è la puntuale conseguenza di crisi politiche e focolai di guerra che hanno compromesso la stabilità d’intere aree bagnate dal Mediterraneo, tra il Nord-Africa e il Medio Oriente. Inizialmente, i Paesi membri dell’Unione più esposti all’impatto sono stati quelli del Sud dell’Europa: Italia, Grecia e Spagna. Era il periodo della primavera araba, delle sommosse interne che hanno ribaltato i vecchi e assai poco democratici assetti politici di Iraq, Egitto, Tunisia, Algeria, Yemen, Libia e Siria. La fisionomia della protesta, composta dalla fratellanza musulmana e dalla grande partecipazione giovanile e studentesca – motori primari dell’originaria ribellione a restrizioni di regime, povertà e assenza di democrazia – ha subito negli anni una radicale metamorfosi: complice la colpevole interferenza di alcuni Paesi occidentali, da sempre attivi nel difendere e, semmai, incrementare i propri interessi in quegli scacchieri, il nuovo volto del potere, che oggi – kalashnikov in mano – s’impone alle popolazioni locali, è un letale cocktail d’integralismo islamico e terrorismo jihadista.

La nascita – agli occhi dell’Occidente, repentina e sospetta – di un Califfato Islamico, che ha scippato la ribalta ad Al-Qaeda, e la perentoria affermazione nei territori dei suoi feroci miliziani, responsabili delle più ignobili barbarie e del disperato esodo di centinaia di migliaia di profughi, sta facendo vacillare le fondamenta stesse dell’edificio europeo. La caduta di Gheddafi ha, illo tempore, illuso i membri nordeuropei dell’Unione che il flusso migratorio, prevalente sull’asse libico-italiano, fosse un problema circoscritto alle sole nazioni europee del bacino del mediterraneo.

A Bruxelles – diamo a Cesare quel che è di Cesare – qualcuno, affetto da conclamata miopia, aveva irresponsabilmente sottovalutato il fenomeno, scaricando il barile ai paesi che, per vicinanza geografica, sono in prima linea. Per non avere la seccatura di gestire gli sbarchi, l’UE si era prima limitata a finanziare Roma sul mantenimento della missione Mare Nostrum, poi adoperata per rimpiazzarla con un’agenzia a compartecipazione europea, depotenziata nei mezzi e nelle competenze, denominata Frontex. In un passato non troppo remoto, il governo italiano, lasciato solo nell’impresa, azzardò la richiesta di revisione degli accordi di Schengen al fine di proteggere i confini esterni dell’Unione (ovvero, i nostri), ma ricevette lo sdegnoso niet degli altri partner europei, all’epoca non direttamente interessati dal problema.

Oggi, in Siria, l’inasprito conflitto interno ha costretto i profughi ad aprirsi, via terra, un’altra strada d’accesso verso i ricchi e ambiti Paesi nordeuropei di Germania, Francia, Gran Bretagna e Svezia, trainando un ampio segmento di migranti economici, ad alto rischio d’infiltrazioni terroristiche: parliamo del corridoio balcanico, che dalla Siria, attraverso la biforcazione Turchia e Bulgaria a nord e Grecia e Macedonia a sud, delinea il nuovo fronte migratorio. Siriani, afghani, libici, iracheni, pachistani, somali, eritrei, kosovari transitano a piedi lungo questa direttrice, attraversando paesi come la Serbia, Croazia, Bosnia Herzegovina e Ungheria, per richiedere asilo politico e lavoro nel paese scelto quale destinazione finale. Ungheria, Bulgaria e Grecia hanno eretto chilometri di recinzioni a protezione dei confini per contrastare il passaggio illegale dei migranti.

I partner nordeuropei, dunque, obbligati a rivedere le priorità interne, dopo un’iniziale disponibilità all’accoglimento, offerta dai rispettivi capi di governo anche per mostrare – in chiave elettorale – una sensibilità della politica ai drammi umanitari, davanti all’enormità dei numeri e a episodi sintomatici delle difficoltà d’integrazione con l’islam più radicale, autentici boomerang in termini di consenso, innestano la retromarcia e ridiscutono, ora, il trattato sulla libera circolazione delle persone all’interno dell’Unione, invocando il ripristino dei controlli lungo i confini nazionali; nel frattempo, sul fronte esterno, si cerca di creare dei “tappi” in Libia, perorando la formazione d’un governo d’unità nazionale con cui negoziare l’arresto dei flussi nel Mediterraneo, e in Turchia, chiedendo al presidente Erdogan, dietro lauti pagamenti, di fungere da argine terrestre all’avanzata migratoria proveniente dalla Siria.

Ultima iniziativa, che ha destato preoccupazione a Bruxelles, è la decisione unilaterale della Svezia di rimpatriare, tramite voli charter dedicati, circa 80.000 migranti. Cresce, negli ambienti nazionalisti di estrema destra, il sentimento xenofobo. Si moltiplicano gli episodi d’intolleranza e s’aggravano le tensioni sociali in seno alle popolazioni europee, già stressate dal perdurante effetto della crisi economica e dalla sensazione che, a Palazzo di vetro, si antepongano i problemi dei potentati bancari e dell’euro a quelli tangibili dei cittadini europei. La mancanza, ormai chiara, di una strategia condivisa sulla questione migrazione sta purtroppo evidenziando profonde crepe strutturali nell’impalcatura dell’Unione; le divisioni e le paure sul pericolo di lasciar entrare un potenziale cavallo di Troia nelle mura della città sono, oggi, forse ancor più nocive degli attentati e delle farneticanti minacce dell’Isis.

©Futuro Europa®

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