Egitto, cosa rimane cinque anni dopo piazza Tahrir
L’11 Febbraio 2011, il Presidente Hosni Mubarak lasciava il potere dopo 18 giorni di manifestazioni popolari. Oggi, quasi più nessuno si interessa a lui, visti gli sconvolgimenti che l’Egitto sta vivendo dopo la sua caduta. Cinque anni dopo, mentre Mubarak continua a vivere in una suite dell’ospedale militare , il suo processo va per le calende greche e il suo clan è quasi riabilitato dall’opinione pubblica, tanto il nuovo regime sembra ancor più autoritario. Cinque anni dopo, Piazza Tahrir vive il tempo della disillusione.
Hosni Mubarak, 87 anni, ha approfittato della sua fragile salute per evitare il carcere. Malgrado la condanna a tre anni di detenzione del maggio 2015, non è ancora mai andato dietro le sbarre. In effetti, da cinque anni a questa parte, ha soprattutto conosciuto le camere dell’ospedale militare del Cairo e le aule dei tribunali. In entrambi i casi, Mubarak se l’è cavata. Durante il primo processo del 2012, è apparso su una lettiga, indebolito, giocando sull’impossibilità di assistere ai dibattimenti. Ma, in fin dei conti, la sua salute non sembra essere poi peggiorata più di tanto. Per quanto riguarda le accuse, si sono progressivamente vuotate di sostanza. Al primo processo, Mubarak è stato condannato a vita per la morte di centinaia di manifestanti. L’ufficio del Pubblico Ministero ha fatto appello, il verdetto è stato così rovesciato e il tribunale che lo ha nuovamente giudicato ha deciso per l’abbandono delle accuse. Questo verdetto è stato impugnato a sua volta, ma il nuovo processo si trascina, annegato dai rinvii delle udienze.
Alla fine Hosni Mubarak è stato condannato che per l’appropriazione indebita di fondi pubblici. I suoi due figli, condannati insieme a lui, sono stati liberati nell’ottobre del 2015 perché avevano scontato il periodo di custodia cautelare e, secondo il loro avvocato, non c’erano motivazioni per tenerli in prigione. Da allora, Alaa e Gamal sono molto discreti, anche se non vivono sicuramente nell’indigenza. I beni del clan sono congelati in Svizzera, non dimentichiamo che parte dell’affaire Mubarak riguarda proprio i soldi. I milioni della famiglia bloccati sui conti svizzeri, 539 milioni di euro dei quali le autorità giudiziarie cercano di conoscere la provenienza. Riciclaggio o attività criminali? Qui ritroviamo traccia dei figli di Mubarak. I due fratelli possiedono 265 milioni congelati su dei conti del Credit Suisse. Su questo aspetto del dossier Mubarak la giustizia non ha ancora mollato. Poche settimane fa, il procuratore della Confederazione elvetica, Michael Lauber, è stato in Egitto per discutere dei beni dei Mubarak congelati in Svizzera.
Ma se il clan Mubarak sembra “sopravvivere” senza grandi rischi, cinque anni dopo la rivoluzione di Piazza Tahrir, cosa ne è dell’Egitto? Il 25 gennaio del 2011, migliaia di egiziani invadevano Piazza Tahrir al Cairo, reclamando maggiore giustizia e democrazia. Diciotto giorni dopo, ottenevano l’uscita di scena del “Faraone” Hosni Mubarak, al potere da 30 anni. L’evento, che seguiva di poco la caduta inattesa di Ben Ali in Tunisia, fece soffiare il vento della speranza attraverso il Mondo Arabo. Sembrava veramente essere all’alba di una nuova era, nella quale gli uomini forti del Medio Oriente e del Nordafrica avrebbero ceduto il posto ai giovani. Purtroppo, ad eccezione della fragile Tunisia, le “Primavere arabe” non sono riuscite ad ottemperare le loro promesse. Così, siamo stati costretti ad guardare, con un pizzico di malinconica ironia, Abdel Fattah al-Sissi celebrare alla televisione di Stato egiziana, la rivoluzione del 2011. Perché il Paese che dirige con un pugno di ferro dal 2013 sembra la fotocopia l’Egitto del dittatore caduto in disgrazia, Hosni Mubarak.
In Egitto si respira come un’aria di contro-rivoluzione. Cinque anni dopo le manifestazioni del 2011, il Paese è tutto, tranne che una Democrazia liberale. E’ grazie ad un colpo di Stato che l’attuale Presidente egiziano è arrivato al potere nel Luglio del 2013, rovesciando Mohamed Morsi, eletto un anno prima a suffragio universale. Membro della confraternita dei Fratelli Musulmani, quest’ultimo aveva riacceso il malcontento di parte del popolo egiziano. Il motivo? La sua incapacità a far ripartire l’economia, il suo piglio autoritario nell’applicare il potere e la paura di una islamizzazione del Paese. Al-Sissi giustificò il suo colpo di forza con il sostegno del popolo egiziano. Qualche giorno prima della caduta del Presidente islamista, in molti avevano manifestato per le strade delle grandi città del Paese chiedendo le sue dimissioni. Due anni e mezzo dopo, sull’Egitto si respira un’aria di piombo. I Fratelli Musulmani, principale forza di opposizione del Paese, sono stati oggetto di una repressione che ha causato la morte di 1.400 simpatizzanti. Molte migliaia di loro sono stati arrestati. L’ex Presidente Morsi stesso è in carcere, e rischia la pena di morte. Le autorità egiziane hanno iscritto la confraternita religiosa nella lista delle organizzazioni “terroristiche”, così come il “Movimento del 6 Aprile”, un gruppo liberale che era in prima linea nel 2011.
La presa in mano del potere da parte di al-Sissi, e dell’esercito, ha portato ad una sorta di apatia politica. Boicottate da molti Partiti dell’opposizione, il tasso di partecipazione alle elezioni politiche del 2015 non ha raggiunto che il 28%. Bisogna ammettere che la suspense era praticamente nulla: così, i Partiti vicini all’esecutivo hanno avuto vittoria facile, mente il Partito salafista Al-Nour ha subito una pesante sconfitta. Nel Febbraio del 2015, Amnesty International ha affermato in un rapporto che la repressione in Egitto era “ai suoi massimi, considerando gli ultimi 30 anni”, mentre Reporter senza frontiere ha classificato il Paese al 158° posto nella classifica della libertà di stampa nel Mondo. Come un simbolo, l’uomo forte del Paese ha invitato gli egiziani a non manifestare il 25 Gennaio, per motivi di scurezza. La rivoluzione ha lasciato il posto a molta amarezza e tristezza nei giovani. La depressione aleggia sui rivoluzionari e molti di loro hanno lasciato l’Egitto.
“Pane, giustizia, dignità”, scandivano i manifestanti della Piazza Tahrir cinque anni fa. Le loro richieste sono lontane dall’essere soddisfatte. Il settore turistico, pilastro dell’economia, ha subito il contraccolpo dell’instabilità politica e la minaccia terroristica. Un problema che al-Sissi pensa scongiurare forte di progetti faraonici “alla Nasser”, finanziati soprattutto dalle Monarchie del Golfo. Per quanto riguarda la giustizia, gli arresti arbitrari e i processi di massa si moltiplicano nei tribunali militari, coinvolgendo soprattutto gli attivisti e difensori dei diritti così come i sostenitori dei Fratelli Musulmani. Il regime incoraggia le denuncie, e vige un’atmosfera di perenne paranoia. Ma questo non vuol dire che gli anti-Sissi siano finiti e la resistenza si muove tra i social network. Segnali di cambiamento? Il posto delle donne nella società sembra essere leggermente migliorato, la campagna contro gli abusi non è più tabù. Molte donne si erano distinte tra le figure chiave della rivolta, e cinque anni dopo il numero di deputate ha raggiunto un numero record nella storia del Paese (14,6% degli eletti). Se è vero che alle ultime elezioni solo un elettore su tre è sembrato coinvolto dal voto, due volte meno che nel 2012, è sempre il doppio che sotto Mubarak. Inoltre, le donne e minoranze, soprattutto copte, vengono meglio rappresentate.
Il nuovo Parlamento ha cominciato i suo lavori all’inizio di Gennaio, Importanti cantieri son iscritti in Agenda. Rimane da vedere se risponderà alle speranza della generazione Tahrir. Per ora la disillusione sembra vincere sulla speranza. Ancora in troppi pagano la voglia di verità con la vita.