L’umorismo di Eco
Di Umberto Eco, dopo la sua morte, è stato detto tutto: la sua immensa cultura, il suo talento di romanziere e di saggista, la sua profondità di filosofo, critico e analista della società della comunicazione, le sue passioni politiche civili. A me piace ricordare qui il suo senso dell’umorismo, quella qualità di “leggerezza” che rendeva la sua compagnia sempre piacevole.
Lo conobbi molti anni fa all’aereoporto di New York. Era recente l’uscita del “Nome della Rosa “e a me parve normale chiedergli come si sentiva di fronte allo straordinario successo del libro anche negli Stati Uniti (un “mercato” difficilissimo per qualsiasi scrittore straniero). Senza battere ciglio mi disse di sentirsi “fregato”. Perché? Gli chiesi stupito. Perché, mi spiegò, il suo editore americano lo aveva convinto che l’opera avrebbe interessato pochi lettori e quindi gli aveva pagato, per i diritti di pubblicazione in “paperback”, 50.000 dollari. Il libro stava vendendo in America a centinaia di migliaia di esemplari, l’editore si stava arricchendo a milioni.
Lo rividi anni dopo, a Buenos Aires. Venne con l’allora Rettore dell’Università di Bologna, Roversi Monico, per l’inaugurazione della sede dell’Università nella capitale argentina. Tenne il discorso inaugurale nel Teatro Coliseo, affollatissimo. Il tema era “il futuro del libro”. Tra gli argomenti che usò per sostenerne la superiorità del libro stampato rispetto a quello on-line, osservò, suscitando l’ilarità generale, che un libro stampato poteva usarsi per sostenere la gamba di un tavolo traballante, un computer no.
Offrimmo una cena all’Ambasciata in onore suo e di Roversi Monaco. Mi aveva detto di essere un ammiratore incondizionale e appassionato di Borges, e fatto notare che la Biblioteca del “Nome della Rosa” era direttamente ispirata dal “Labirinto” borgesiano e che aveva chiamato il personaggio principale John de Burgos giustamente in omaggio allo scrittore argentino. Pensai di invitare alla cena le due “vedove” di Borges, quella ufficiale, Maria Kodama, e quella “ufficiosa”, Maria Esther Vazquez, che di Borges era stata a lungo amica (platonica) e un po’ anche ninfa egeria. Ero abbastanza nuovo al “piccolo mondo” borgesiano e non sapevo che tra le due esistevano una gelosia e un odio spietati. Le avevo sedute ai due lati miei, e per tutta la sera si scambiarono, per così dire, attraverso il mio corpo, frasi velenose. Umberto Eco, seduto di fronte a me, si divertiva osservando la scena. Dopo, mi sussurrò: ”Se le parole fossero coltellate, lei sarebbe già morto”.
Non era il primo intellettuale che avessi incontrato. Ero stato amico di un altro grandissimo scrittore argentino, Ernesto Sabato, avevo conosciuto Giorgio Bassani, Raffaele La Capria, Maria Luisa Spaziani e tanti altri. In Ambasciata erano sfilati Vittorio Sgarbi, Riccardo Muti, Salvatore Accardo, Uto Ughi, Vittorio Sermonti,Umberto Veronesi, Edoardo Sanguineti (poeta e persona di un pessimismo così lugubre che faceva apparire Leopardi spensierato: leggeva le sue “Cartoline”, ovviamente ermetiche, accompagnato dal contrabbasso; sprezzava qualsiasi poesia “comprensibile” e quasi litigammo quando definì la bellissima poesia di Pavese, “Verrà la Morte”, una “poesia da liceale”). La caratteristica comune a tutti era un manifesto egocentrismo. Eco era diverso. Pareva non prendersi sul serio e per questo la sua conversazione, oltre che infinitamente illuminante, era riposante e spesso divertente. Avrei potuto ascoltarlo ore e ore, giorni interi, senza stancarmi.