Putin e la mossa a sorpresa
Visione, calcolo, lucidità, sapienza strategica: sono queste le qualità essenziali per un grande giocatore di scacchi, il wargame per eccellenza. La Russia ha dato i natali a celeberrimi campioni del calibro di Spasskij, Karpov e Kasparov e di tale fulgida tradizione sembra farne tesoro anche Vladimir Putin, sì impegnato in ambiti assai differenti, ma – al tempo – ugualmente compatibili all’applicazione dei principi scacchistici. Il leader russo ha saputo restituire alla ribalta internazionale un Paese spento, dopo il dissolvimento dell’impero sovietico, e l’ha fatto con la ferrea determinazione di chi nasce da quelle parti del mondo e col carisma di uomo “tutto d’un pezzo”, marchio di fabbrica del suo personale percorso militare e politico. Parla poco, mai a vanvera, sa farsi capire in modo netto, perché ciò che dice – condivisibile o meno – lo traduce comunque in azione. Ha conquistato l’attenzione e sconfitto la residuale diffidenza dell’opinione pubblica occidentale – tuttora influenzata dall’immagine di un’ex Unione Sovietica associata al male assoluto – con l’autorevolezza di chi ha idee chiare ed elevata capacità realizzativa; fattori che, nell’attuale proscenio politico mondiale, trovano ben pochi paladini.
E così, dopo essersi mosso per primo nella polveriera siriana, spiazzando tutti gli altri titubanti e ondivaghi coprotagonisti, Putin infila con rimarchevole acume tattico l’ennesimo coup de maitre e annuncia, a sorpresa, il graduale ritiro delle Forze armate russe da quel fronte. Lo fa dopo sei mesi d’intense operazioni militari, che hanno fruttato l’attuazione di 9.000 raid aerei su 400 centri abitati, la riconquista di oltre 10.000 chilometri di territorio, l’azzeramento della primaria fonte di finanziamento dell’Isis mediante distruzione di 200 impianti petroliferi e numerosi convogli di camion-cisterne in transito verso il confine turco e, infine, il suggello di una tregua tra forze governative siriane e ribelli non jihadisti che, nonostante le numerose violazioni, pare sostanzialmente reggere. Lo fa in concomitanza con la ripresa, a Ginevra, dei negoziati di pace tra governo di Damasco e opposizioni, ottenendo il plauso per chi promuove la via della diplomazia e ritornando, non senza aver prima incassato il pieno successo militare e il riconoscimento internazionale sulla superiorità della macchina bellica russa, a un ruolo preminentemente politico nell’affaire siriano. Agli occhi del mondo, Putin diviene il vero regista della risoluzione della crisi nel quadrante mediorientale.
Schiere di osservatori e analisti s’interrogano sulle ragioni del ritiro russo. Molti di loro attribuiscono la mossa al raggiungimento degli obiettivi che lo “Zar” avrebbe concordato con l’alleato Assad: una campagna militare breve, per non rimanere invischiato in un “secondo Afghanistan”, ma d’intensità tale da indebolire gli avversari del regime e dare modo e tempo a Damasco di procedere a un’estesa ristrutturazione del proprio apparato militare, rinnovando armamenti offensivi e difensivi obsoleti con forniture hi- tech provenienti da Mosca. Il rafforzamento dell’esercito siriano con nuovi blindati e tank T-90, il consolidamento del comparto aeronautico con 130 apparecchi Mig 23, Mig 29 e Sukhoi 24, aggiornati con le ultime tecnologie russe, e il costante apporto sul campo di contractors e consiglieri militari avrebbero consentito al Cremlino il parziale rientro delle forze schierate in Medio Oriente. Mosca ha fatto sapere che, sul teatro di guerra, rimarranno solo un migliaio di soldati russi, fra cui duecento con “non meglio specificati compiti di ricognizione”.
In ogni caso, le operazioni di contrasto all’Isis e ad Al-Nusra, filiazione terroristica di Al-Qaeda, procederanno senza sosta con missioni aeree di bombardamento e col mantenimento della piena operatività nella base aerea di Hmeymim, a sud-est di Latakia, e nella base navale di Tartus, unico affaccio sul Mediterraneo per la flotta russa. Né sarà, peraltro, smantellato il sofisticato sistema di difesa contraerea e antimissile S-400, installato all’indomani dell’abbattimento di un jet russo da parte dei turchi. L’azione di Mosca, articolata prevalentemente su incursioni aeree e sul lancio di missili dalle navi da guerra di stanza nel Mar Caspio e nel Mediterraneo, potrebbe dunque riprendere con incisività, in caso di fallimento dei negoziati; ciò rende perfettamente decifrabile la portata ridotta del suo parziale disimpegno militare.
Gli Usa, piacevolmente convinti – qualche mese addietro – dell’imminente fine di Assad, stritolato dall’avanzata dei ribelli e dall’estendersi del dominio territoriale dei tagliagole islamici, sono costretti ora da Putin, artefice del ribaltamento radicale di scenario, a dover scegliere il male minore tra l’orrifico Isis e il brutale regime siriano e a optare, obtorto collo, per il secondo. Le abili manovre dell’inquilino del Cremlino, tessitore in Medio Oriente di salde alleanze con Iran e Siria, attraggono oggi i curdi in chiave anti-Isis e anti-turca e iniziano a produrre aperture anche verso possibili cooperazioni con Israele, limitando drasticamente eventuali spazi d’inserimento americano nell’area. Washington mostra forte preoccupazione sul fatto che alla guida dell’auspicata e delicata fase di transizione politica in Siria possa insediarsi Putin. Per il momento, il presidente russo precisa che l’uscita di scena di Assad non è sul tavolo delle trattative di Ginevra e, anzi, indica il dittatore, una volta messa fine alla guerra civile, quale garante della stabilità nel Paese, tanto per non ripetere i miopi errori commessi in Iraq, con l’eliminazione di Saddam, e in Libia, con la caduta di Gheddafi. Che, dopotutto, abbia ragione lui, unico interprete, nell’arte della guerra, degno di Sun-Tzu?