Obama in America Latina
Le immagini del viaggio del Presidente Obama a Cuba sono realmente notevoli. A 57 anni dalla rivoluzione castrista, dopo decenni di conflitti, di tentativi di invasione, persino di propositi di assassinio, un Presidente degli Stati Uniti torna nell’Isola caraibica, passa ore in colloquio con il suo attuale leader, Raoul Castro, si fa persino fotografare sullo sfondo di una gigantesca immagine del Che Guevara, icona importante della Rivoluzione. Certo, da quel lontano 1959 ad oggi moltissima acqua è scorsa sotto i ponti. Il vecchio Fidel Castro, ammalato di cancro, è uscito di scena, il fratello, più pragmatico, ha compreso la necessità, per la stessa sopravvivenza di Cuba, di superare l’ostilità degli Stati Uniti ed eliminare l’embargo economico che lo soffoca. Tutti quelli che sono stati nell’Isola di recente testimoniano di un vento di cambio che sta soffiando, più forte probabilmente di quello che lo stesso regime voglia. Ciò non toglie però nulla al coraggio di Barack Obama, alla sua apertura di spirito, alla sua lungimiranza politica. Riallacciando le relazioni con l’Avana e recandosi in visita nella capitale, Obama ha corso un rischio politico molto alto all’interno del suo proprio Paese, dove la destra repubblicana, appoggiata dalla grande comunità di emigrati cubani, trova in queste aperture una ragione di più per odiare il Presidente democratico. Tanto più meritoria, dunque, la sua iniziativa.
La visita, il clima amichevole in cui si è svolta, il fatto che Obama abbia potuto parlare all’intero popolo cubano per Televisione: non vogliono dire che la strada nelle relazioni tra Stati Uniti e Cuba sia ora in discesa. Nei discorsi dei due Capi di Stato, le differenze sono state puntigliosamente ribadite. Obama ha messo fortemente l’accento su democrazia, libertà, diritti civili, Castro sul diritto alla salute e all’educazione e sulla difesa della sovranità nazionale. Ha reclamato la fine dell’embargo e la restituzione di Guantanamo. La prima dipende da un Congresso americano non precisamente amichevole nei confronti del regime castrista, la seconda è una faccenda estremamente complessa, sulla quale lo stesso Presidente degli Stati Uniti non ha la voce finale. Insomma, divergenze restano e anche profonde, e non credo che il regime cubano sia disposto ad aprirsi in materia di libertà politiche, ma se vorrà conseguire quello che gli sta veramente a cuore, cioè l’eliminazione dell’embargo, dovrà pur fare qualche passo in avanti. Insomma, una strada è stata aperta ed è da sperare, per la pace della Regione e il suo progresso economico e sociale, che sia percorsa, con prudenza, ma senza arretramenti da una parte e dall’altra. Naturalmente è da chiedersi se la futura Amministrazione americana manterrà questo indirizzo di apertura. È facile pensare che se essa sarà democratica, lo farà. Se dovesse prevalere la destra di Trump, le cose potrebbero di nuovo fermarsi. È ovvio che Obama ha presente questa possibilità e probabilmente ha inteso creare un fatto non reversibile. Ma in politica niente è mai scontato.
La visita a Cuba ha naturalmente distolto l’attenzione da un’altra visita importantissima, quella che il Presidente degli Stati Uniti ha effettuato all’Argentina. Era da almeno dodici anni, cioè dall’inizio dei governi di Nestor e Cristina Kirchner, che il grande Paese latinoamericano aveva voltato le spalle, non solo agli Stati Uniti, ma all’Europa, scegliendo una politica orientata su Venezuela, Iran, Cina, Russia e risentita e dispettosa nei confronti dell’Occidente.
Il nuovo Presidente, Maurizio Macri, si è proposto un cambio di 180 gradi, riaprendo l’Argentina al mondo occidentale e ritrovando i suoi amici tradizionali. Le visite in rapida successione di Matteo Renzi, di Francois Hollande e ora di Barack Obama, confermano che questo cambio è stato ben accolto e che i principali Paesi occidentali sono pronti ad appoggiarlo. Non è un fatto secondario, pur in un complesso panorama internazionale nel quale prevalgono conflitti e preoccupazioni lontane dall’America Latina.
Ma un Paese delle dimensioni dell’Argentina che cooperi di fatto con i nemici dell’Occidente è un fattore di rischio, ora per fortuna superato. Nell’isolamento indotto dai Kirchner, il Brasile era stato per oltre dieci anni il referente di tutta l’area. Ora, in un momento di grave crisi politica del grande vicino, l’Argentina può e deve riprendere un ruolo di leader regionale, aperto alla collaborazione col mondo sui temi principali: ampliamento del commercio internazionale, lotta al terrorismo e al narcotraffico, difesa del medioambiente, funzionamento degli organismi internazionali.
La politica estera di Barack Obama può essere criticata per vari aspetti; non gli si possono però rimproverare avventurismo e imprudenza, casomai un’eccessiva, anche se comprensibile, riluttanza verso interventi militari sul terreno. E gli va riconosciuta la capacità di correggere linee che si rivelano improduttive. Avviata una certa normalizzazione della situazione in America Latina, lo aspetta ora, da qui alla fine del suo mandato, un compito cruciale: contribuire a superare in modo realistico la crisi siriana e a sconfiggere l’ISIS e il terrorismo che da esso origina. Il viaggio del Segretario di Stato Kerry a Mosca, l’evidente cordialità del suo incontro con Putin, costituiscono un buon passo in questa direzione.