Marò, passa per l’Aja la via per riportare Girone a casa
Se, all’indomani dei fatti della Enrica Lexie, l’Italia avesse evitato le parabole e scelto la via diretta nei confronti dell’ostile autorità giudiziaria indiana, forse avrebbe risparmiato ai due nostri fucilieri qualche anno di gratuito calvario.
Sono queste le critiche, all’indirizzo dei governi susseguitisi alla guida del Paese, che provengono da più parti politiche e, nello specifico, come prevedibile, dalle opposizioni. In verità, attacchi strumentali a parte, un eccesso di titubanza, dettato forse dal timore di compromettere i rapporti diplomatici ed economici intercorrenti con New Delhi, e la propensione a mediare a ogni costo, quando è invece chiaro che il sordo non vuol sentire, hanno spaccato in due il dibattito parlamentare e l’opinione pubblica. Trattasi di due soldati della Repubblica Italiana, Stato membro della Nato, in servizio antipirateria in acque internazionali a difesa di una nostra petroliera, trattenuti nelle maglie della giustizia indiana da quattro anni, senza che sia stato ancora formulato un solo capo d’imputazione a loro carico. Il problema avrebbe, perciò, dovuto essere tempestivamente esteso all’Europa e affidato al diritto internazionale, perché Girone e Latorre non rappresentano solo la madrepatria, ma anche i soldati con pari funzioni di tutti gli aderenti al Patto Atlantico.
A ogni buon conto, guardiamo il bicchiere mezzo pieno: il contenzioso sul cruciale punto del foro competente di giudizio è stato, finalmente, trasferito da uno sterile confronto vis-à-vis con l’India al più rassicurante, ma senz’appello, piano dell’arbitrato internazionale, al cospetto di un tribunale con sede a L’Aja e davanti a una platea ben più ampia, che funga da influente testimone ai futuri esiti della procedura.
Il governo italiano è, inoltre, recentemente impegnato anche sul fronte egiziano apertosi con l’omicidio per tortura di Giulio Regeni, altro orrido caso in cui la dignità e il diritto alla verità dei famigliari e del Paese intero, istituzioni in testa, sono allegramente portati a spasso e calpestati dai ridicoli e, per questo, ancor più oltraggiosi depistaggi della polizia del regime di Al-Sisi; questione dal peso affatto trascurabile, che – se gestita con scarsa determinazione – ridurrebbe al lumicino l’idea di rispetto che l’Italia può attendersi fuori dai propri confini, nei casi di dispute internazionali di natura inquirente e giudiziaria.
E’ dei giorni scorsi la prima udienza davanti alla Corte Permanente d’Arbitrato istituita nella città olandese, oggi presieduta dal magistrato russo Golitsyn. L’agente per lo Stato italiano, l’ambasciatore Azzarello, ha presentato istanza d’autorizzazione all’immediato rientro in patria per Girone, affinché vi resti per tutta la durata della procedura, in applicazione alla misura provvisoria prevista ai sensi dell’art. 290 della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare. Ciò eviterebbe al militare, ancora trattenuto in India, mentre Latorre è già in Italia per curarsi da un ictus, di restare “sequestrato in attesa di giudizio” per ulteriori quattro anni, tanto è stimata la durata dell’arbitrato. L’India ritiene inammissibile la richiesta italiana, lamentando che il nostro governo non abbia fornito garanzie sufficienti di restituzione dei due fucilieri, in caso di attribuzione del foro competente a New Delhi. La parola spetta, quindi, ai giudici e ai team di avvocati delle parti in causa. Il nostro Collegio di Difesa, composto di esperti legali italiani e non, come Sir Daniel Bethlehem, ex capo del servizio giuridico del Foreign Office britannico, è intenzionato a far valere anche il principio d’immunità che il diritto internazionale riconosce ai militari durante l’espletamento delle loro funzioni. Fa da sponda alla vicenda il vertice Ue-India di Bruxelles: il caso dei marò è sul tavolo della discussione e il premier indiano Modi è consapevole del peso che la controversia con l’Italia potrebbe assumere sullo sviluppo delle relazioni, anche commerciali e d’investimento, con l’Unione.
E’ giunto quindi il momento di abbandonare ogni riserva e utilizzare tutte le leve lecite, anche stragiudiziali e muscolari, per accelerare la risoluzione del doloroso contenzioso.